Imago pietatis: indagine su fotografia e compassione

Alan Kurdi e la sfida dell'empatia

29.08.2021
Imago Pietatis
Imago Pietatis
autori: Fausto Colombo
formato: Libro
prezzo:
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Le foto di Alan contengono questa sfida, la sfida dell’empatia.

Settembre 2015, un bambino sdraiato carponi sulla riva del mare. Indossa una maglietta rossa, sollevata sopra l'addome e un paio di pantaloncini blu. «Potrebbe dormire ma sappiamo che non si sveglierà mai più: è una delle immagini di un servizio fotografico su un naufragio di migranti nel Mar Egeo. Il suo nome, Alan Kurdi, si è radicato saldamente nella nostra memoria». Quando il suo corpicino si ferma sulla spiaggia di Bodrum, inizia infatti un altro pezzo di storia, senza di lui. È la storia raccontata dal sociologo Fausto Colombo - direttore del Dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo dell'Università Cattolica - nel saggio Imago pietatis, quella di una foto che diventa simbolo, facendo il giro del mondo e del web, provocando conseguenze sociali e politiche.

Prima c’è la scintilla: la notizia appena pubblicata dalle agenzie viene ripresa su Twitter da una giornalista e attivista turca, poi a poco a poco l’esplosione che farà divampare l’incendio. Come avviene per tutte le grandi tempeste, la fiamma brucia in fretta, eppure la storia non scompare del tutto ma scivola altrove, cambiando registro narrativo. Lasciando spazio all’approfondimento, ma anche alla moltiplicazione dei racconti e delle immagini. La foto di Alan verrà rielaborata, trasformata in “motivo”, in opera d'arte: ecco allora il disegno di un bambino non morto, ma addormentato nel suo letto, e ancora l'immagine dello stesso bambino con ali d'angelo. La sua storia verrà trasformata in un fatto pubblico e legittimata quasi istituzionalmente fino a trovare posto in una pagina di Wikipedia, “Morte di Alan Kurdi”. Ed avrà, almeno in un primo tempo, conseguenze propriamente politiche: nei mesi successivi la Germania accolse alcune migliaia di rifugiati bloccati in Ungheria, il premier Cameron accettò l'arrivo di 4.000 rifugiati l'anno e fu immaginato il sistema di rilocazione che avrebbe dovuto permettere ai migranti bloccati in Italia e in Grecia di raggiungere altri paesi europei. È un caso di esaltazione mediatica collettiva o una manifestazione singolarmente intensa dei nostri sentimenti più umani? Interrogando anche le proprie emozioni di spettatore, Fausto Colombo costruisce con questo libro un vero e proprio diario di viaggio, capace di svelare i meccanismi alla base della comunicazione più recente indagando al tempo stesso le pieghe del sentire umano. 

«Perché le immagini di Alan sono state così potenti?»: è questa domanda attorno a cui ruota l'indagine del sociologo. La sua risposta affonda le sue radici in una storia più antica, in quel legame originario con il tempo e con la morte che costituisce l'essenza stessa del dispositivo fotografico.  «Il tempo della foto è il passato. Ciò che vediamo nella foto è accaduto in un tempo precedente a quello in cui il nostro sguardo cade sulla foto». E questo rapporto speciale e ambiguo è ancor più evidente scorrendo le più famose immagini giornalistiche di guerra o sofferenza, dal celebre The Falling Soldier di Robert Capa agli ultimi scatti del fotografo newyorkese Bill Biggart della tragedia del'11 settembre. È a partire da queste immagini e insieme dal pensiero di Benjamin, Baudelaire, Sontag, Barthes, che Fausto Colombo prova a tracciare un'estetica e insieme un'etica della fotografia. Che finisce per chiamarci in causa, perché non sono le immagini a costruire il proprio senso, siamo noi a darglielo. E se, come afferma Mitchell, il potere delle immagini sta nel vuoto che creano e nel nostro bisogno di riempirlo, viene da chiedersi cosa ci chiede la morte di Alan. Forse, dice Colombo, «una tela nuova, fatta della nostra coscienza e della nostra vita».

«Alla fine» conclude il sociologo «le foto di Alan contengono questa sfida, la sfida dell’empatia. Possiamo sentire quell’empatia o possiamo rifiutarla. Possiamo tornare a guardare gli altri dietro il muro dei nostri stereotipi e dei nostri egoismi. Possiamo raccontarci che sono colpevoli del proprio dolore, che quest’ultimo non ci riguarda, che la nostra vita non deve esserne toccata. Ma se la porta dell’empatia si apre, non ci resta che tornare alla nostra umanità condivisa, al nostro essere in quanto umani una sola comunità di destino».
 

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