La mafia si combatte anche con la ricerca
Le reti delle mafie
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autori: | Francesco Calderoni |
formato: | Libro |
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«La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità». Questa frase è stata pronunciata da Borsellino a meno di un mese dalla strage di Capaci, il 20 giugno 1992. Oggi che sventolano alte le agende rosse, dopo la nuova pagina giudiziaria che parla dell’omicidio di Borsellino come «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», proviamo a capire come è cambiato l’approccio di studio al fenomeno mafioso. Perché la mafia si combatte anche con la ricerca e comprendendone la complessità. Ce lo spiega Francesco Calderoni, professore di Sociologia della devianza in Università Cattolica, autore del libro Le reti delle mafie. Le relazioni sociali e la complessità delle organizzazioni criminali, frutto di un lungo percorso di ricerca.
Sociologia e mafie: cosa ha a che fare questa scienza con la criminalità organizzata e quale aiuto può dare nella lotta al fenomeno?
Credo che la sociologia e la criminologia possano dare un contributo essenziale per la comprensione delle mafie. Come ho raccontato nel libro, nel corso di diversi decenni la criminalità organizzata è stata osservata da diverse prospettive analitiche. Per alcuni era principalmente una burocrazia, un’organizzazione o un’impresa. Per altri era un comportamento, una cultura. Talvolta queste prospettive di analisi si sono scontrate e in alcuni casi hanno generato una percezione pubblica e delle politiche di contrasto. Come riconoscono molti esperti delle forze dell’ordine e della magistratura, la strada per il contrasto alle mafie non può e non deve essere esclusivamente giudiziaria. Pertanto le scienze sociali possono aiutare a capire le dinamiche che animano la criminalità organizzata. E questo a sua volta permette di sviluppare delle politiche più efficaci.
Efficienza, calcolo dei rischi, leadership: parole chiave che potremmo pescare da qualsiasi statuto aziendale. Qual è il significato di questi termini all’interno delle reti criminali?
Una delle prospettive analitiche di questi ultimi anni ha suggerito che la criminalità organizzata possa considerarsi come un’impresa. In realtà, nel libro dimostro come sia difficile analizzare le mafie da un solo punto di vista. Le mafie cercano il potere e il profitto economico, forniscono protezione illegali e intervengono nei mercati illegali: la criminalità organizzata è complessa e multidimensionale. I concetti che lei richiama sono essenziali per capire la complessità mafiosa. La criminalità organizzata si muove in un mondo ostile. Le agenzie di contrasto cercano costantemente di identificare ed arrestare i criminali. Controllare il flusso di informazioni è perciò fondamentale. E nel mondo dell’illegalità non esistono contratti, tribunali, diritti di proprietà. La valutazione dei rischi, la leadership e la ricerca dell’efficienza e della sicurezza sono elementi che contraddistinguono la vita delle organizzazioni criminali e dei singoli che ne fanno parte.
Tra le scene più classiche delle rappresentazioni cinematografiche della mafia c’è quella del matrimonio della figlia del boss o il funerale di qualche congiunto o affiliato: fuori dallo schermo, perché i leader devono essere necessariamente presenti a questi momenti?
È interessante che queste scene restino sempre molto impresse nella memoria di tutti. Tuttavia raramente si è provato a ragionare nel dettaglio sulle ragioni di queste attività sociali delle mafie, spesso relegandole a manifestazioni di una cultura tradizionale e un po’ arcaica. Un capitolo del libro è dedicato all’analisi degli incontri tra gli ‘ndranghetisti identificati durante diverse indagini. Oltre a matrimoni e funerali, i criminali si incontravano per prendere decisioni sui delitti, celebrare il conferimento di incarichi e promozioni. In un mondo ostile (per l’efficace contrasto delle forze dell’ordine e per l’impossibilità di ricorrere alle regole della società legale) i leader mafiosi si incontrano in modo strategico. Partecipare a importanti eventi sociali consente di accedere a informazioni e risorse non accessibili ad altri e in un contesto di relativa sicurezza.
Le riunioni e le telefonate ricavate dalle indagini sulla ‘Ndrangheta tra il 2010 e il 2015 (Infinito, Minotauro, Crimine, Aemilia) a quali scoperte hanno portato?
I leader tendono a minimizzare l’uso del telefono, per il rischio di essere intercettati, ma tengono al contrario in grande considerazione gli incontri. Questo perché la partecipazione a certe riunioni è una prerogativa essenziale della leadership mafiosa che non può essere delegata o abbandonata. Le loro frequentazioni sono strategiche, nel senso che tendono a incontrare persone che non sono in diretto contatto tra loro. In questo modo fanno da ponte nel flusso delle comunicazioni. E le scienze sociali ci hanno mostrato che coloro che hanno una posizione di ponte nel flusso comunicativo sono anche meglio posizionati per intercettare opportunità, novità, idee. Insomma gli incontri hanno un ruolo strategico per i boss. Allo stesso tempo questo risultato ha delle potenzialità in chiave di contrasto alle mafie.
Come si possono contrastare questi incontri?
È possibile applicare anche le attuali norme al fine di vietare ai membri delle mafie di incontrarsi tra loro, per esempio tramite le misure di prevenzione personali. In questo modo si potrebbe efficacemente disturbare le attività dei leader mafiosi, rendendo loro molto più oneroso e rischioso incontrare di persona gli altri membri. Questo potrebbe gettare della sabbia negli ingranaggi della criminalità organizzata.
Oltre a essere professore coordina il dottorato Internazionale in Criminologia dell’Università Cattolica, incontra quindi molti giovanissimi studiosi: è cambiato qualcosa da quando la parola cultura è stata associata alla mafia in quel lontano, ma mai dimenticato, discorso di Borsellino?
Credo che molto sia cambiato in oltre 25 anni. E d’altronde sarebbe strano che non fosse così, sia nell’impegno civile che nella ricerca scientifica, sempre più rigorosa oltre che appassionata. Lo studio delle mafie si è infatti consolidato in Italia e all’estero e il livello di raffinatezza delle ricerche ne è una testimonianza. Oggi i nostri dottori di ricerca trovano lavoro in università straniere, partecipano a progetti di ricerca internazionali, acquisiscono conoscenze e strumenti che li preparano per una carriera europea e non solo.
Sono molto fiero di questo risultato che dimostra la qualità del Dottorato internazionale in criminologia, frutto dell’impegno di molti colleghi del Centro di ricerca Transcrime diretto dal prof. Ernesto Savona. Però non posso che rammaricarmi nel notare le difficoltà che i nostri giovani hanno nel trovare opportunità accademiche in Italia. Nel nostro Paese la criminologia fatica ad affermarsi a livello accademico ed è ancora frammentata in diverse tradizioni (per esempio la tradizione medica, quella giuridica e quella delle scienze sociali). Mi auguro che in futuro ci sia un’evoluzione di cui forse si incominciano a intravedere i segni.
(a cura di Velania La Mendola)
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