Max Milner e il visibile

«Tutta la vita e la ricerca di Max Milner potrebbero ricapitolarsi nel passo delle Confessioni di sant’Agostino ch’egli cita nel capitolo dedicato a Poésie et sainteté: “Le mie domande erano dal mio contemplare; le loro risposte, dalla loro bellezza”». Così scrive Carlo Ossola nella postfazione a Rembrandt a Emmaus, ultimo saggio del filologo francese pubblicato in Italia nel 2018.
Max Milner è stato uno dei più importanti studiosi francesi del Romanticismo e una delle voci più eclettiche della critica del Novecento, in grado di affrontare a tutto tondo la storia della letteratura e dell’arte anche sotto lo sguardo della psicanalisi, della filosofia, della cultura del tempo.
Figlio della spagnola Luz Ansuatégui e del poeta francese d’origine polacca Zdzisław Milner, nasce il 18 giugno 1923 a Mont-Cauvaire in Normandia. Suo padre fin da piccolo lo introduce all’amore per la poesia e in particolare all’opera dello spagnolo Luis de Góngora. Nel 1960 prende il dottorato in Lettere presso l’Università di Parigi.
Studioso ebreo, convertitosi poi al cattolicesimo, è stato professore di letteratura all’Università di Digione e poi all’Università Sorbona. Il suo interesse copre tutta la letteratura del XIX e del XX secolo e in particolare autori come Giovanni della Croce, Baudelaire, Gérard de Nerval, Bernanos, Huysmans e Freud che saranno al centro di molti suoi saggi. Nel 1960 diventa noto per Le Diable dans la littérature française de Cazotte à Baudelaire, libro nel quale affronta il tema di Satana nella letteratura ricorrendo anche alla storia, alla filosofia e alla psicanalisi. Nonostante il successo, Milner resta un uomo discreto, poco propenso a parlare di sé e a cercare onorificenze, benché si presentino numerose: dal 1970 al 1996 sarà presidente della Société des études romantiques et dix-neuviémistes (SERD) alla cui fondazione aveva contribuito lui stesso e nel 2004 diviene membro dell’Accademia dei Lincei (succedendo a Mauriche Blanchot).
Milner muore il 21 giugno 2008 a Digione all’età di 84 anni. La sua ultima opera, Rembrandt a Emmaus è una riflessione sulla questione del “visibile” a partire dal dipinto di Rembrandt, un libro che è stato definito una vera e propria “epifania”.
L’origine del testo viene spiegato dallo stesso autore nell’incipit: «Questo libro è nato da una scoperta e da una sorpresa. La scoperta è quella della versione dei Pellegrini di Emmaus conservata al Museo Jacquemart-André. Parlare di scoperta in questo caso farà forse sorridere non solo gli specialisti di Rembrandt, ma anche qualunque persona possieda una media conoscenza della sua opera. Eppure per me fu davvero una scoperta. Avevo visitato tempo prima il Museo Jacquemart-André e, forse pressato dal tempo, forse attratto dai quadri di Paolo Uccello e di Carpaccio che si trovano al piano superiore, avevo gettato solo una rapida occhiata alla sala del piano terra dove si trovava, in mezzo ad alcuni quadri grandi e belli del XVII secolo, fra cui due ritratti dipinti da Rembrandt, questo piccolo dipinto a olio su pannello di legno, considerato un po’ sdegnosamente, all’epoca, come una delle sue opere giovanili (in effetti il pittore aveva 22 anni quando lo eseguì ed è uno degli otto o dieci suoi dipinti più antichi che siano stati conservati). Solo sfogliando, molto tempo dopo, il primo volume della magnifica edizione, ancora incompiuta, del Corpus of Rembrandt Paintings ho avuto uno choc scoprendo la sua riproduzione a piena pagina. Choc di assistere a un evento che è a un tempo un evento pittorico e un evento spirituale; choc di venire posto di fronte, grazie ai mezzi propri della pittura, a qualcosa che avviene. Ogni volta che, in seguito, sono tornato al museo, si è approfondita l’impressione del carattere unico di quel quadro. Questa è la scoperta.
La sorpresa consiste interamente nella differenza tra l’opera conservata al Museo Jacquemart-André e quella (del 1648), molto più celebre e celebrata, che rappresenta la stessa scena al Museo del Louvre. Tutto sembra contrapporre i due dipinti: la tecnica, l’atmosfera, lo scenario, la disposizione dei personaggi, la maniera di imporre allo spettatore la visione del pittore, eppure tra di essi vi è una continuità segreta. Sono l’uno e l’altro puro Rembrandt. Certo, testimoniano di un’evoluzione del pittore nel corso dei vent’anni che li separano, ma anche della costanza del suo interrogarsi davanti ai problemi inesauribili posti dal testo di san Luca ai pittori che si propongono di darne una traduzione visiva. Costanza manifestata da un altro quadro sullo stesso soggetto (1660), conservato anch’esso al Louvre (tralascio, per il momento, la questione della sua autenticità), ma anche da una quantità di disegni e incisioni nei quali Rembrandt sperimenta, prima e dopo il quadro del 1648, un certo numero di soluzioni per esprimere quel che si svolge di essenziale nell’incontro di Emmaus.
Confrontando queste soluzioni con quelle scelte da altri celebri pittori, speriamo di far comprendere un po’ meglio le ragioni per le quali Rembrandt si sentiva così fortemente coinvolto in quanto artista (e forse in quanto credente, ma su questo punto la nostra ignoranza resta totale) da questa pagina del Vangelo, ma anche la sfida che essa lancia all’immaginario pittorico e il sortilegio che ha spinto un così grande numero di pittori a raccogliere questa sfida».
Una sfida che smuove la curiosità di Milner e suscita in lui diverse domande: Come può un’immagine ‘fissa’ dar conto di un’atmosfera che è allo stesso tempo familiare (una cena condivisa) e folgorante (la rivelazione del Cristo risorto)? Come tenere insieme la luce malinconica del «giorno che volge al declino» e l’accecante sparizione divina? Come fissare quel fremito di instabilità che riflette le reazioni dei discepoli nel passare dall’incredulità alla fede? E non si tratta solo di una sfida ‘tecnica’, di virtuosismo nel tradurre un racconto verbale in racconto visuale. L’incontro di Emmaus interroga i pittori circa la rappresentazione di un mistero che svela una vicinanza laddove si pensava un’assenza, e fa capire che bisogna rinunciare a ciò che si crede di vedere per accedere a una verità che salva. Milner mostra allora nel libro le diverse scelte dei grandi artisti, giocate nei cambi di luce e di postura, perfino nei dettagli più minuti (la sedia rovesciata, il tovagliolo che cade, il coltello in equilibrio…). Per tornare, infine, alla geniale soluzione del giovane Rembrandt, con l’impatto mozzafiato del controluce, che rende il Cristo a un tempo potente e labile, definito ed enigmatico. Presenza e, insieme, promessa: il che è, precisamente, la sfida dell’arte.
D’altronde – scrive ancora Carlo Ossola – «l’esegesi», la critica del testo e dell’opera d’arte, è sempre stata, per Max Milner «una lunga praeparatio all’inatteso».
(a cura di Erica Crespi)
|
||||||||||||
€ 14,00
|
Articolo letto 722 volte.
Inserisci un commento