Accogliere, come donna Giulietta sul monte Rasu

Di seguito trovate un estratto dall'articolo Monte Rasu. Frammenti d'impressioni sarde della scrittrice Maria Sticco, pubblicato sulla rivista "Vita e Pensiero" nel 1957, sugli incontri inaspettati del suo viaggio in Sardegna, tra ricordi speciali, poesie e accoglienza nell'Italia fine anni 50.
di Maria Sticco
di Maria Sticco
Quando c'è di mezzo il mare, la distanza diventa favolosa, anche se, nella misura del tempo, si riduce a poche ore. Così la Sardegna alla mia fantasia appariva lontana in tutti i sensi: terra primitiva di passioni elementari; terra pittoresca di banditi, di mufloni, di cinghiali e di vendette. L'approdarvi fu commozione, il percorrerla velocemente una continua sorpresa, mista di reminiscenze e di scoperte.
Orizzonte nuovo, paesaggio nuovo; però questo, nella sua straordinaria varietà, ne suggerisce altri ben noti: il mare di Napoli, i monti dell'Umbria, le gole degli Abruzzi, i boschi della Sila, la campagna del
Lazio, le scogliere e gli uliveti della Liguria, gli aranceti e i fichidindia della Sicilia, gli stagni e le brughiere della Maremma, il tavoliere delle Puglie, perfino le coltivazioni razionali della pianura padana.
La nota singolare, dominante e unificante questa somma varietà, è la solitudine: solitari certi monti, che si ergono per conto loro, sciolti da catene, in un cielo infinito; solitari i nuraghi, giganti preistorici meditabandi sulla campagna; solitari i ruderi punici e romani disseminati lungo le coste e i castelli spagnoli in bilico su rupi inaccessibili; solitarie le torri genovesi e pisane di vedetta sul mare, le chiesette rustiche sui monti, le vaste pianure e le brevi spiagge, senza pettegolio di casette; solitari certi alberi tarchiati che signoreggiano qua e là i campi, dilatando liberamente, in una magnifica sfericità verde, la loro esuberanza; solitari i sugheri scortecciati fino al rosso-carne del tronco; solitari i pastori a guardia dei branchi e delle mandre; solitarie, o meglio, segrete le donne nella corazza del busto, nel volume delle gonne fittamente piegolinate, nella celata del fazzoletto, quando si abbassa sulla fronte e cinge la gola, lasciando meglio lampeggiare gli occhi; i quali, del resto, non sono meno misteriosi, sia che ardano nerissimi, sia che splendano azzurri, ma così cigliati e naturalmente bistrati da sembrare neri.
Tutto, anche il dialetto vario da paese a paese ed ermetico pur nel suo latineggiare, ricorda che la Sardegna è un'isola, e quest'isola antichissima fa pensare che, nonostante l'ottimismo americano, ogni uomo è un'isola, circondato dal mare ondoso della società, che non lo capisce nè lo appaga mai; ogni uomo nel suo intimo è solo, anche se amato, perchè nemmeno l'amore penetra in quell'abisso dell'io, che invoca perdutamente l'abisso di Dio.

«Benvenuta, benvenuta! Sono felice di averla qui con noi. Quanto più rimane, tanto più ci farà piacere».
Non mi conosceva e non mi vedeva. Non mi poteva vedere. Gli occhi scuri nel viso candido non avevano più sguardo, ma la sua mano piccola e fine stringeva la mia con vigore giovanile. E la dolce voce diceva: «Bisogna volerci bene, molto bene. Questo solo è l'essenziale: volerci bene».
Da quali reminiscenze ancestrali di odi e di vendette, da quali esperienze personali del precetto evangelico affiorava questa invocazione alla fraternità?
Durante il viaggio mi era frullato per la mente un verso di Sebastiano Satta: L'odio soltanto sta nei cuori eterno, ed ora alla prima sosta in una casa sarda, mi salutavano parole d'amore. Avviluppata nello scialle nero, su cui il volto e le mani spiccavano con bianchezza nivea, donna Giulietta non si mosse dal braciere, mentre noi cenavamo, ma partecipò alla conversazione, raccontando qualche cosa della sua lunga vita.
«Sono nata a Nuoro. Mia madre era cugina di Goffredo Mameli».
«È nata a Nuoro? Ha conosciuto Grazia Deledda?».
«Sono stata sua compagna di scuola e di giuoco. I Deledda abitavano proprio di fronte a noi. Il padre di Grazia si chiamava il signor Totoni [Giovanni Antonio], era proprietario e non indossava il costume del paese; la sua mamma si chiamava la signora Chischedda [Francesca], e una sua sorella, che morì giovinetta, Vincenza. Ricordo anche la loro domestica, Nannedda».
«Era brava a scuola la Deledda?».
«Molto brava. Con Grazia ho frequentato tutte le classi, dalla prima all'ultima. E quanto ho giocato con lei nel cortile di casa, dove fioriva un bel rosaio! Lo rivedo ancora. Giocavamo anche all'altalena, un'altalena rustica, fatta con una corda pendente dal ramo di un albero. Grazia era brava e le piaceva leggere. Molte volte andavamo nelle stanze del piano superiore per consultare i libri di Santeddu e Andrea, i miei fratelli che studiavano».

«Mamma sa molte poesie». E la signora confermò: «Da quando non posso più leggere, ripeto quelle che imparai da ragazzina; me le ridico a memoria per passare il tempo».
«Me ne dica qualcuna», pregai. «Quella che vuole. Quella che le viene in mente».
Con pronuncia perfetta recitò liriche del Parzanese, del Berchet, del Prati, dell'Aleardi; un passo mi parve della Brunamonti. La figlia ci mostrò un quaderno ingiallito che, sotto la data: «Nuoro 8 gennaio 1882» portava un componimento di Giulietta tredicenne, una lettera alla mamma per consolarla della partenza del figlio, chiamato in continente dalla leva militare: una separazione tragica pareva. In un altro quaderno, piccolino e piuttosto elegante, del 1887-88, un'amica di donna Giulietta, sicura di farle dono gradito, aveva copiato per lei liriche di poeti allora modernissimi: Marradi, Stecchetti, Carducci. Nell'inchiostro sbiadito di quel corsivo inglese nitido e inclinato, che era proprio delle signorine tardo Ottocento, apparvero Pianto antico e Traversando la Maremma toscana. (Veramente la gentile copista aveva scritto «pisana»). Cominciai a voce alta: Dolce paese, onde portai conforme, ma donna Giulietta, prevenendomi, balzò alla penultima terzina: Oh quel che amai, quel che sognai fu in vano - E sempre corsi, e mai non giunsi il fine - E domani cadrò...
Potenza dell'arte vera: di tutto il sonetto, l'antica signora ricordava esattamente i versi migliori. La suà memoria aveva fatto una cernita infallibile. Chi ha detto che la poesia è patrimonio esclusivo della giovinezza? Salutammo donna Giulietta per salire a Monte Rasu.
«Mi dispiace lasciarla qui sola».
«Non sono sola», e sollevò la corona del Rosario.
«E le poesie?».
«Ah sì, anche quelle mi tengono buona compagnia. Ma andate, andate! Non perdete tempo con me. Divertitevi. Dio vi benedica: Divertitevi».
Ci congedò con quella soavità che aureola la sua canizie di qualcosa di angelico. Preghiera e poesia rischiarano le tenebre dei suoi occhi; nella poesia e nella preghiera tramonta la vita operosa di questa donna, nata e cresciuta quando la Sardegna era compatita quale analfabeta, e intanto - fiera isola, tutta cose e niente vanterie - donava all'Italia la romanziera più robusta dell'Ottocento.
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