Anatomia della speranza

Anatomia della speranza di fronte alla malattia

14.01.2021
Anatomia della speranza
Anatomia della speranza
autori: Jerome Groopman
formato: Libro
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Recentemente ristampato, Anatomia della speranza del medico e professore di Harvard Jerome Groopman è un libro scritto nel 2006 che continua ad avere molto da dire al tempo presente. Groopman ci accompagna al capezzale di persone sofferenti, in bilico tra speranza e disperazione, volontà di reagire e cedimento di fronte al dolore. Storie che offrono un nuovo e incoraggiante punto di vista sulla speranza che, diversamente dal placido ottimismo dell'"andrà tutto bene", vede la realtà per quello che è, senza nascondere o sminuire ostacoli e difficoltà. Qui sotto un piccolo assaggio tratto dall'introduzione. 

Perché certe persone, benché gravemente malate, hanno speranza, e altre no? E la speranza può cambiare il corso di una malattia, aiutando il paziente a sconfiggerla?
Ho cercato le risposte a queste domande nelle esperienze di alcuni straordinari pazienti che ho curato negli ultimi trent’anni. Essi sono stati le mie guide in un viaggio di esplorazione, partito dove la speranza era assente e approdato dove perderla era impossibile. Nel corso del viaggio ho imparato la differenza tra vera e falsa speranza. A volte ho creduto, con superficialità, che anche la falsa speranza fosse giustificata. Altre, invece, di fronte ai miei pazienti che rivendicavano il loro diritto a sperare, ho creduto, sbagliando di nuovo, che non fosse ragionevole farlo. Ma loro hanno continuato a sperare anche se io non ne ero capace, e sono guariti. Infine, una donna di grande fede mi ha mostrato che anche quando sperare per il corpo è impossibile, si può sempre farlo per l’anima. Ogni malato che ho curato mi ha guidato alla scoperta di una parte dell’‘anatomia della speranza’.

La speranza è una delle nostre principali emozioni; tuttavia, definirla è spesso difficile. Molti confondono la speranza con l’ottimismo, cioè con la propensione a pensare che «in un modo o in un altro, tutto si aggiusta». Ma la speranza è diversa dall’ottimismo. Non nasce dalle sollecitazioni a ‘pensare positivo’ o dall’ascolto di rosee previsioni. Diversamente dall’ottimismo, la speranza non ha niente a che vedere con una percezione edulcorata della realtà. Anche se è impossibile dare della speranza un’unica definizione esauriente, ne ho trovata una che mi sembra riassumere bene ciò che, in proposito, ho imparato dai miei pazienti. La speranza è il sentimento confortante che proviamo quando scorgiamo con l’occhio della mente il cammino che può condurci a una condizione migliore. Inoltre, la speranza non nasconde né sminuisce gli ostacoli e le insidie che incontriamo strada facendo. In altre parole, non bisogna confondere speranza e illusione.

La speranza ha buona vista, e così ci aiuta ad affrontare i momenti difficili e a superarli. In tutti i miei pazienti, la speranza – quella autentica – si è dimostrata non meno importante dei farmaci e delle terapie che ho usato per curarli. Ma per rendermene conto, ho dovuto giungere a una fase piuttosto avanzata della mia vita professionale. Al tempo dell’università, quando seguivo le lezioni ma anche quando facevo pratica nei reparti, i malati erano per me e gli altri studenti soprattutto un’affascinante sfida intellettuale. La formulazione della diagnosi e l’individuazione della terapia più efficace erano attività mentali molto simili al lavoro dell’investigatore. Cercavamo nel passato del paziente e nella sua condizione fisica attuale gli indizi sulla sua salute. Il retroterra familiare, le esperienze lavorative, i viaggi, il modo di vivere e i rapporti personali erano fonti di informazioni per risolvere l’enigma clinico. La storia familiare forniva dati sulle caratteristiche ereditarie che possono predisporre a questa o quella patologia; i precedenti lavorativi potevano rivelare l’esposizione a composti cancerogeni e metalli nocivi; i viaggi suggerivano contatti con microrganismi capaci di causare malattie esotiche, rare o assenti negli Stati Uniti ma comuni in altre parti del mondo; le abitudini come fumare o bere alcolici erano noti fattori di rischio per varie patologie, mentre i rapporti intimi erano importanti in relazione a una serie di infezioni, dalla gonorrea alla sifilide, all’HIV.

Risolvere un caso clinico difficile e individuare la terapia più efficace è un esercizio intellettuale estremamente gratificante; tuttavia, la ricostruzione del retroterra e della storia personale del malato dà al medico l’opportunità di indagare su un altro ‘mistero’: quello del ruolo della speranza e della disperazione nell’equazione della guarigione.

Per quasi tre decenni ho esercitato la professione di medico specializzato in ematologia e oncologia, curando pazienti affetti da tumori, malattie del sangue, HIV ed epatite C. Ho anche effettuato ricerche nel mio laboratorio, studiando le alterazioni genetiche e proteiche che accompagnano queste malattie. Ma per molto tempo, al capezzale dei malati o seduto ai banconi del laboratorio, ho sottovalutato l’impatto della speranza sulla salute dei miei pazienti. Infatti, anche se ovviamente non ignoravo del tutto questo sentimento, era all’interpretazione degli esami di laboratorio, delle immagini diagnostiche e delle biopsie che dedicavo quasi tutta la mia attenzione. Ma le informazioni così ottenute, benché indispensabili alla diagnosi e alla terapia, erano insufficienti. Quello che mancava andava imparato con l’esperienza. Dovevo essere messo alla prova, non più in modo astratto, ma avendo di fronte ostacoli reali, sia come medico sia come paziente.

Una vasta letteratura popolare sostiene che le emozioni positive influenzano l’organismo, nella salute come nella malattia. Si tratta, però, di una letteratura in gran parte vaga e inconsistente, incline a scambiare i desideri con la realtà. Nelle opere di questo tipo, la speranza è descritta come una specie di panacea, capace da sola di liberarci da patologie di ogni genere. In quanto scienziato e persona razionale, che ha imparato a ricostruire la sequenza del DNA e a studiare la funzione delle proteine, ho cercato di evitare i trabocchetti di una visione mitica della speranza e dei suoi effetti. Ma così facendo, ho finito col chiudere tale sentimento fuori dalla porta e ho impedito alla mia intelligenza di comprendere la sua importanza in quanto catalizzatore della guarigione.

Un’esperienza personale mi ha aperto la mente. Per circa diciannove anni, dopo un intervento chirurgico non riuscito alla colonna vertebrale, ho vissuto in un labirinto di ridotte prestazioni fisiche e periodiche riacutizzazioni del dolore. Poi, grazie a una serie di circostanze fortuite, ho trovato una via d’uscita. Mi sono sentito come se mi avessero restituito la vita e ho capito che solo la speranza mi aveva permesso di riprendermi. La speranza ritrovata mi aveva spinto a partecipare a un programma terapeutico impegnativo e originale e fornito la determinazione necessaria a portarlo a termine. Senza la speranza avrei trascorso il resto dei miei giorni prigioniero della sofferenza. Ma ho avuto anche la sensazione che nel mio caso la speranza avesse fatto di più che spingermi ad approfittare di un’occasione e a non arrendermi. Sono convinto che essa abbia avuto effetti reali e profondi non solo sul mio stato emotivo, ma anche su quello più propriamente fisico.

In quanto uomo di scienza, non mi bastano le impressioni; perciò, ho intrapreso un’indagine scientifica rivolta ad appurare se il sentimento vivificante della speranza possa veramente contribuire alla guarigione. Ciò mi ha permesso di scoprire che esiste una vera e propria biologia della speranza. Ma quale portata ha? Quali sono i suoi limiti? La scienza sta dimostrando che un cambiamento dell’atteggiamento mentale è in grado di modificare la biochimica cerebrale. L’attesa fiduciosa – un aspetto chiave della speranza – può fungere da antagonista del dolore, provocando la liberazione di sostanze, le endorfine e le encefaline, che simulano l’effetto della morfina. In certi casi, la speranza può influenzare profondamente anche fondamentali processi fisiologici, come la respirazione, la circolazione del sangue e la locomozione. È quindi possibile immaginare che durante la malattia, la speranza causi una specie di ‘effetto domino’, una reazione a catena in cui ogni singolo risultato biologico rende più probabile il miglioramento. È un sentimento che ci trasforma in modo radicale, nello spirito e nel corpo.

Cerco la speranza ogni giorno, per i miei pazienti, per coloro che amo e per me stesso. È una ricerca ancora in corso. In queste pagine, narro quello che mi ha regalato fin qui.

 

 

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