I cani? Ci rendono umani

«In un suo celebre romanzo, José Saramago avanza un’idea piuttosto interessante a proposito del legame tra il cane e l’uomo. Sostiene che il nostro cane ci guarda come se lo avessimo creato noi. Non si riconosce nello specchio, si riconosce nell’altro, in noi».
Con questa frase, ispirata dal romanzo di José Saramago La caverna, storia di un vasaio, Cipriano Algor, e della figlia Marta e degli stravolgimenti delle loro vite, Francesco Stoppa nel suo La costola perduta delinea il legame che si crea tra l’uomo e il suo “migliore amico”, che non si lega al padrone per un semplice atteggiamento di sottomissione, perché se così fosse non ci coinvolgerebbe così tanto.
Stoppa parla semmai di devozione, che evoca la gratitudine e la «ripetuta, quotidiana attesa di veder rinnovata l’alleanza che ci lega reciprocamente. Potremmo azzardare che quello sguardo così penetrante ha in sé la dignità di una domanda: e infatti non a caso del cane si dice che “gli manca solo la parola”, a conferma del fatto che il suo sguardo cela in sé l’impossibile a dirsi di ogni vera domanda. La cosa importante, per quanto ci riguarda, è però un’altra. Infatti, in questa implicita domanda di riconoscimento, riconoscimento non tanto della propria esistenza quanto del diritto di avere un posto, una parte, sulla scena del mondo, il cane certifica la nostra umanità. In altre parole, ci abilita a essere ciò che realmente siamo o dovremmo essere: dei viventi chiamati a dare forma a qualcosa come un mondo e accoglienza alle presenze che lo popolano».
E proprio grazie all’intensità del suo sguardo, il cane ci richiama alle nostre responsabilità. Nella sua attesa, instancabile e fedele, infatti possiamo ritrovare quello che ci aspettiamo dalle persone che amiamo e da cui siamo amati: «che ci vedano per quello che siamo sottraendoci così al rischio dell’anonimato, della frammentazione o dell’alienazione della nostra identità». Il cane quindi nella sua cieca riconoscenza ci spinge a fare meglio, ad assumerci le nostre responsabilità, perché «in effetti ogni domanda di riconoscimento attesta allo stesso tempo l’umanità di chi è chiamato a rispondere».
(di Chiara Ascoli)
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