Il mostro di cui non vediamo la bellezza

bellezza è interiore
Il titolo Mostri favolosi (Fabolous Monster in ed. or.) di Alberto Manguel è certo un rimando al delizioso dialogo tra Alice e l’Unicorno di Carroll, e rimanda all’idea di qualcosa di mitico. Tuttavia scorrendo le pagine del libro l’autore sembra dare un nuovo significato alla parola mostro, come quando parla della Chimera o di Frankenstein, che non a caso compare al suo fianco nella vignetta della bandella.
Chi sono i mostri dentro e fuori le pagine? Lo abbiamo chiesto all’autore che ci ha risposto così: «La parola mostro è problematica, perché sebbene etimologicamente significhi “un prodigio che riflette la volontà degli dei” e da qui “avvertenza, monito”, ne abbiamo alterato il significato per denotare qualcosa o qualcuno che è malvagio, inumano. Questo è un errore. I mostri sono esseri straordinari, buoni o cattivi, a seconda del nostro giudizio, ma sempre prodigiosi. Quindi, per l’Unicorno che non ha mai visto una bambina, Alice è un prodigio, come lo è l’Unicorno per Alice. I personaggi dei romanzi sono “mostri” nel senso che sono unici» (leggi l’intervista completa). Tra questi esseri speciali c’è anche Quasimodo, il celebre personaggio di Hugo, a cui Manguel dedica un capitolo: di seguito un breve estratto.
di Alberto Manguel
«Chiedete al rospo che cosa sia la bellezza», scrisse Voltaire, «e vi risponderà che è la sua femmina, con due grandi occhi rotondi che le sporgono dalla testa». Di tutte le brutte facce che infestano le pagine dei nostri libri, forse il viso dai tratti meno definibili è quello di Quasimodo, il Gobbo di Notre-Dame di Victor Hugo. Davanti alla bruttezza dei suoi lineamenti, il suo autore si dichiara sconfitto. «Non tenteremo neppure di dare al lettore un’idea di quel naso tetraedo, di quella bocca a ferro di cavallo, di quell’occhietto sinistro ostruito da un sopracciglio rosso e cespuglioso, mentre l’occhio destro scompariva del tutto sotto una verruca enorme; di quei denti in disordine, sbrecciati qua e là come i merli di un castello; di quel labbro calloso, sul quale uno di quei denti sporgeva impervio come la zanna di un elefante; di quel mento forcuto, e della fisonomia, della fisonomia specialmente, che caratterizzava tutto quell’insieme, miscuglio di malizia, di sbalordimento e di tristezza. Tenti chi vuole d’immaginarselo; se gli riesce».
Ecco che cosa abbiamo fatto: lo abbiamo sognato. Non solo dal 1831, data di pubblicazione del romanzo di Hugo, ma da molto prima, dai nostri primi incubi, quando primordiali Quasimodo si aggiravano per i villaggi trogloditi a terrorizzare i cacciatori di mammut. Se il libro della Genesi dice il vero, allora Quasimodo fu fatto a immagine dell’orribile Jehovah, terrore dei suoi angeli e demoni. Oggi Quasimodo è «l’altro» che ci restituisce i nostri lineamenti deformati nello specchio; la persona che proviamo a non essere, quell’io che non vogliamo far trapelare al mondo. Ci facciamo belli, ci agghindiamo, ci pettiniamo, ci trucchiamo e ci mascheriamo per non mostrare agli altri quei tratti che potrebbero essere non graditi.
Sappiamo infatti, come spiegava il vescovo Berkeley, che esistiamo soltanto nell’occhio che ci percepisce. Il dilemma di Amleto non è quello di Quasimodo: Quasimodo vuole soltanto che gli sia permesso di esistere. Vuole avere gli stessi diritti degli altri, godere dell’avvicendarsi delle stagioni, della compagnia degli amici, della contemplazione del bello. Chiede di non essere schiavo delle apparenze, di agire secondo le proprie emozioni e i propri pensieri e di non essere soltanto lo specchio dell’orrore degli altri. Non vuole incarnare paure aliene. […]
Continuiamo a credere che dietro a un viso come quello di Quasimodo non possa albergare nulla di buono. Eppure, dal canto suo, Quasimodo è l’opposto del suo aspetto fisico. Come i bei fiori che mostra a Esmeralda nel vaso di terracotta (che nella sua grottesca mente metaforica sono l’immagine di se stesso) così che lei possa paragonarli ai fiori appassiti nel vaso di cristallo (immagine del suo rivale, il capitano Phoebus), Quasimodo sa che la sua bellezza è interiore e che nessuno si sforza di vederla.
Per quanto sia amorevole, generoso, coraggioso, per quanto sia riconoscente (perfino, almeno all’inizio, nei confronti del fanatico arcidiacono Frollo) o innamorato (sempre più, di Esmeralda), niente di tutto questo conta. È mostruosamente brutto, e questo fatto lo definisce, proprio come la colossale bellezza definisce l’edificio che dà il nome al romanzo. Questa è una nozione pericolosa, l’allusione a una verità nascosta. Se, dietro alla gobba, ai denti rovinati e agli occhi strabici, Quasimodo è un uomo straordinario, allora che cosa si cela dietro alle pietre magnificamente intagliate e alle vetrate policrome di Notre Dame? Venticinque anni dopo la pubblicazione del romanzo, Hugo si fece la stessa domanda nelle Contemplazioni:
Una parola può prorompere dall’odiosa cavità;
Non chiedere quale. Se la cavità è la bocca,
Caro Dio, quale sarà allora la voce?
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