Italo Calvino: il nostro classico del Novecento

In occasione del centenario della nascita di Italo Calvino, un estratto dal libro del filologo e critico letterario Carlo Ossola, Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove, dal capitolo dedicato al profilo biografico.
di Carlo Ossola
Italo Calvino nasce a Santiago de Las Vegas (Cuba) il 15 ottobre 1923. Il padre Mario è agronomo, e dirige a Cuba una stazione sperimentale di agricoltura; la madre, Eva Mameli, è laureata in scienze naturali. Rientrata la famiglia Calvino in Italia nel 1925, Italo frequenta le scuole valdesi e poi il liceo Cassini a Sanremo. Nel 1941-1942 si iscrive a Torino alla Facoltà di Agraria, dove il padre è incaricato. Nel 1944 partecipa con il fratello alla Resistenza sulle Alpi Marittime. Nel 1945, finita la guerra, si iscrive alla Facoltà di Lettere a Torino ove si laurea nel 1947 con una tesi su Joseph Conrad. Stringe amicizia con Cesare Pavese e svolgerà poi una regolare attività di consulente editoriale presso Einaudi, collaborando altresì a vari giornali e riviste, sino a dirigere con Elio Vittorini «Il menabò di letteratura» (1959-1966). Si trasferisce a Parigi dal1967 al 19801. Muore a Siena il 19 settembre 1985. Fin dal suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), ispirato alla Resistenza, e dai racconti di Ultimo viene il corvo (1949), la tendenza al realismo e quella al fantastico si manifestano in lui complementari, in quel territorio – che è misura dell’intelligenza e del gioco – tra verisimile e probabile. Nell’alternarsi così del registro realistico (la raccolta complessiva I racconti, 1958, o il romanzo breve La giornata di uno scrutatore, 1963) e di quello fantastico (Il visconte dimezzato, 1952; Il barone rampante, 1957; Il cavaliere inesistente, 1959, poi raccolti nel volume I nostri antenati, 1960), si deve riconoscere la stessa lucida vocazione, capace di collocare l’invenzione letteraria come scena ove il meditare filosofico e l’impegno etico trovano le loro più ‘giuste’ parabole. Basti evocare una lettera a Valentino Gerratana, del 15 ottobre 1950:
«Credi sempre che la guarigione sia nel ragionamento, nell’aver chiarito teoricamente il problema, mentre invece la coscienza della via di soluzione d’un problema morale non si può avere che contemporaneamente alla sua soluzione pratica effettiva.»
I ‘mondi possibili’ – dei quali Calvino affina la conoscenza a contatto con l’Oulipo e con Raymond Queneau (del quale traduce I fiori blu, 1967) e dei quali sono variazioni e inveramenti Le Cosmicomiche (1965) e Ti con zero (1967) – evidenziano in controluce le aporie, le contraddizioni, il grottesco di quelli ‘reali’. La formula che egli adoprerà nei suoi Saggi, per coniugare le due prospettive, sarà quella della «Città pensata: la misura degli spazi» (1982). I suoi interventi critici sono tra i più acuti del secondo Novecento: Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società (1980), Collezione di sabbia (1984) e – postumo– Perché leggere i classici (1991). I due sintagmi– la «città pensata» e la «misura degli spazi» – indicano perfettamente lo sviluppo della poetica di Calvino, da Le città invisibili (1972) e da Il castello dei destini incrociati (1973), sino a Palomar (1983). Il visibile e il rappresentato, la ‘redenzione degli oggetti’ e insieme la forma dei ‘modelli’ si affrontano e si combinano nei romanzi filosofici di Calvino, pellegrino dell’umano, «viandante nella mappa»:
«La morale che emerge dalla storia della cartografia è sempre di riduzione delle ambizioni umane. [...] È come se il rappresentare il mondo su una superficie limitata lo retrocedesse automaticamente a microcosmo, rimandando all’idea d’un mondo più grande che lo contiene. Per questo la carta si situa spesso al confine tra due geografie, quella della parte e quella del tutto, quella della terra e quella del cielo, cielo che può essere firmamento astronomico o regno di Dio.»
Le città invisibili e Palomar inverano questo ‘viaggio dello sguardo’: l’infinitamente piccolo è altrettanto complesso (come in Lettura di un’onda) che l’immenso contemplato dal signor Palomar; il visibile e l’invisibile si contendono lo spazio della nostra coscienza che, più si allena allo sguardo, più sente l’urgere di ciò che si sottrae:
«Non c’è città più di Eusapia propensa a godere la vita e a sfuggire gli affanni. E perché il salto dalla vita alla morte sia meno brusco, gli abitanti hanno costruito una copia identica della loro città sottoterra. [...] Da un anno all’altro, dicono, l’Eusapia dei morti non si riconosce. E i vivi, per non essere da meno, tutto quello che gli incappucciati raccontano delle novità dei morti, vogliono farlo anche loro. Così l’Eusapia dei vivi ha preso a copiare la sua copia sotterranea. Dicono che questo non è solo adesso che accade: in realtà sarebbero stati i morti a costruire l’Eusapia di sopra a somiglianza della loro città. Dicono che nelle due città gemelle non ci sia più modo di sapere quali sono i vivi e quali i morti.»
Questa sapienza del paradosso, che discende da Swift a Borges a Calvino, non solo dissolve – leopardianamente – ogni mitologia di progresso, ma insegna all’uomo a pensare fisica e metafisica come indissolubili, se anche ciò che di questa meditazione rimanesse non fosse che vuoto:
«Intenta ad accumulare i suoi carati di perfezione, Bersabea crede virtù ciò che è ormai cupo invasamento a riempire il vaso vuoto di se stessa.»
Apparve ai contemporanei che Calvino accedesse ai principi semiologici messi in valore da Umberto Eco e da Roland Barthes (e in effetti Lector in fabula di Eco e Se una notte d’inverno un viaggiatore sono perfettamente contemporanei: 1979); ma quando si legga la commemorazione che Calvino dettò alla scomparsa di Barthes, meglio si intenderà il valore morale che l’uno e l’altro conferivano alla scrittura, opera di grandi moralistes quali essi furono:
«Questi rimandi della memoria non sono un caso: è che tutta la sua opera [di Barthes], ora me ne accorgo, consiste nel costringere l’impersonalità del meccanismo linguistico e conoscitivo a tener conto della fisicità del soggetto vivente e mortale.» [...]
Di fronte alle poetiche e agli scrittori e ai critici che fecero di ‘dialetto e società’ (Gadda, Pasolini, Contini) il luogo dell’autentico, ove una lingua delle origini incontrava un popolo incontaminato, o baroccamente troppo ricco rispetto alla ‘medietà’ manzoniana della lingua nazionale, Calvino ha saputo dar forma, en philosophe, a una lingua capace dell’universo, precisa, esatta e tuttavia senza confini, classica nel conferire il primato alle idee, il posto giusto agli oggetti, alle forme, ai tempi, allo sguardo che li mette in prospettiva.
Come la sua lingua, egli è il nostro classico del Novecento, nella sua capacità di cancellare tutto l’inessenziale, tutto il transeunte, per ottenere il supremo dono dell’arte, la ‘trasparenza’, quale egli vede sorgere dallo sguardo di Félicité, la più umile delle figure dei Trois contes di Flaubert:
«La trasparenza delle frasi del racconto è il solo mezzo possibile per rappresentare la purezza e la nobiltà naturale nell’accettare il male e il bene della vita.»
La levità combinatoria di Calvino è stata spesso accostata a quella dell’Ariosto (sul quale del resto egli ha scritto pagine mirabili): e tuttavia quando si mediti il suo ultimo lascito, Perché leggere i classici (apparso postumo nel 1991), non all’Ariosto ma a Flaubert va ricondotta la sua arte e il suo dono, a noi più prezioso, quello di aver ricreato, per il XXI secolo, lo sguardo di Félicité; così
«possiamo riconoscere l’arduo punto d’arrivo cui tende l’ascesi di Flaubert come programma di vita e di rapporto col mondo. Forse i Trois contes [come la trilogia di Calvino: Le città invisibili, Palomar, Six memos] sono la testimonianza d’uno dei più straordinari itinerari spirituali che mai siano stati compiuti al difuori di tutte le religioni.».
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