La convergenza di interessi dietro la strage di Capaci
A trent'anni dalla strage di Capaci, uno degli eventi più tragici della storia repubblicana e che ha segnato un punto di volta nella lotta alla criminalità organizzata, vi proponiamo un estratto dal libro Mafia. Fare memoria per combatterla di Antonio Balsamo, il presidente del Tribunale di Palermo, che il 24 maggio 1992 fu chiamato a indossare per la prima volta la toga per vegliare i corpi straziati di Falcone, la moglie, la scorta.
di Antonio Balsamo
Nel pomeriggio del 23 maggio 1992, alle ore 17.56, l'Italia, fino a pochi minuti prima concentrata sulle elezioni del nuovo Presidente della Repubblica, si trovò improvvisamente proiettata all'interno di una scena di guerra. L'immagine che scosse in profondità il nostro Paese, e tutto il mondo, era quella della spaventosa devastazione prodotta a Capaci, vicino Palermo, dall'esplosione che uccise Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, e gli agenti di polizia Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani, mentre percorrevano a bordo di due autovetture blindate il tratto di autostrada tra l’aeroporto e la città.
di Antonio Balsamo
Nel pomeriggio del 23 maggio 1992, alle ore 17.56, l'Italia, fino a pochi minuti prima concentrata sulle elezioni del nuovo Presidente della Repubblica, si trovò improvvisamente proiettata all'interno di una scena di guerra. L'immagine che scosse in profondità il nostro Paese, e tutto il mondo, era quella della spaventosa devastazione prodotta a Capaci, vicino Palermo, dall'esplosione che uccise Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, e gli agenti di polizia Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani, mentre percorrevano a bordo di due autovetture blindate il tratto di autostrada tra l’aeroporto e la città.
Trent’anni dopo la loro uccisione, possiamo essere certi che il loro sacrificio non è stato vano. La strage di Capaci ha segnato uno dei momenti più drammatici della strategia del terrorismo mafioso, ma anche un punto di svolta nella coscienza civile del Paese e nell’azione dello Stato contro la criminalità organizzata.
Questa impresa criminosa, che per Cosa nostra doveva rappresentare l’espressione della massima potenza, ha segnato, in realtà, l’inizio della fine di un’epoca nella quale la mafia dei ‘corleonesi’ poteva contare su un solido rapporto di alleanza e cointeressenza con numerosi settori del mondo sociale, dell’economia e della politica. Dopo la strage di Capaci, Cosa nostra è stata percepita dall’intero Paese, e dalla comunità internazionale, come un fenomeno criminale di stampo eversivo capace di colpire al cuore lo Stato italiano, e non più come una componente strutturale della società siciliana, una subcultura meridionale, una situazione locale con cui diversi ambienti esterni potevano pensare di convivere in una posizione di malcelata indifferenza, interrotta da saltuarie spinte emozionali.
Si tratta di un evento drammatico che è rimasto scolpito nella memoria collettiva e ha cambiato davvero la storia dell’Italia, ma in senso opposto rispetto a quello che avevano immaginato i vertici di Cosa nostra. Sulla responsabilità dei singoli, si sono ampiamente soffermate le sentenze emesse dall’autorità giudiziaria. Ma, nelle stesse sentenze, si evidenziano le zone d’ombra su cui resta fondamentale un ulteriore approfondimento. Attraverso le più recenti ricostruzioni giudiziarie, è venuto a formarsi un quadro, sia pure non ancora compiutamente delineato, che conferisce maggiore forza alla tesi secondo cui centri di potere esterni a Cosa nostra possono essersi trovati in una situazione di convergenza di interessi con l’organizzazione mafiosa, condividendone i progetti e incoraggiandone le azioni.
Assumono un’indubbia rilevanza, sotto questo profilo, due aspetti: da un lato, l’attività ricognitiva e di ‘indagine’ di Cosa nostra volta a sondare la reazione di ambienti esterni rispetto al proposito di eliminare Giovanni Falcone; dall’altro lato, il cambiamento di programma comunicato da Salvatore Riina in data 4 marzo 1992, che pose fine alla ‘missione romana’ e diede avvio alla preparazione dell’attentatuni. L’idea che la strage di Capaci sia stata un fatto di mafia ‘pura’, immune da contaminazioni esterne e frutto di una decisione ‘autarchica’, si pone in insanabile contrasto con le dichiarazioni rese, nel corso della sua collaborazione con la giustizia, da un boss di primaria importanza che era stato capo del ‘mandamento’ di Caccamo, Antonino Giuffrè.
Quest’ultimo ha sottolineato che, prima di attuare la strategia stragista, erano stati effettuati da Cosa nostra dei ‘sondaggi’ con «persone importanti» appartenenti al mondo economico e politico. Questi sondaggi si fondavano sulla ‘pericolosità’ di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. In un contesto nel quale forza della mafia derivava dai suoi rapporti, imperniati su interessi comuni, con ambienti dell’economia, della politica, delle professioni, della magistratura e dei servizi deviati, è chiaro che proprio da questo tipo di relazioni iniziava l’isolamento che portava all’uccisione di quei «servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere», per usare una famosa espressione di Giovanni Falcone.
Nella sua ricostruzione dello scenario in cui si inseriva la strage di Capaci, Giuffrè ha posto in risalto la campagna di delegittimazione lanciata contro Giovanni Falcone «in tutti i settori» e «su tutti i livelli», nel campo imprenditoriale, politico e giudiziario, sottolineando il ruolo principale svolto da Cosa nostra nell’ambito di questa strategia. Lo stesso collaboratore di giustizia ha esplicitato che i «motivi più gravi» che determinarono l’isolamento, al quale seguì l’uccisione, di Giovanni Falcone, consistevano nel fatto che quest’ultimo «andava a ledere quelli che erano i rapporti professionali, economici, questo intrigo tra la mafi a e organi esterni», facendo riferimento anche ai grandi canali del riciclaggio internazionale. Il Giuffrè ha poi evidenziato il pericolo rappresentato da Giovanni Falcone per i «livelli alti» della politica, specificando che «c’era questo intreccio tra Cosa Nostra, politica di un certo livello e imprenditoria in modo particolare».
Quanto riferito da Antonino Giuffrè sulle ragioni dell’isolamento di Giovanni Falcone corrisponde perfettamente ad alcune delle intuizioni più illuminanti e innovative del magistrato, che, invece di considerare Cosa nostra come una monade chiusa in sé stessa e confinata in una dimensione esclusivamente criminale, aveva puntato lo sguardo sullo sviluppo di un intero sistema di potere fondato sulle complicità mafiose. Giovanni Falcone aveva espresso con chiarezza la convinzione che Cosa nostra fosse coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, e che alcuni gruppi politici si fossero alleati con Cosa nostra nel tentativo di condizionare il sistema democratico, eliminando personaggi che costituivano un ostacolo per gli interessi di entrambe le parti. Aveva chiarito che le logiche mafiose sono in realtà le logiche del potere, sempre funzionali a uno scopo. Aveva sottolineato la straordinaria contiguità economica, ideologica e morale tra mafia e non-mafia.
All’ampiezza e alla profondità delle indagini del magistrato – estese alle sinergie degli esponenti mafiosi, in grado di intessere relazioni associative transcontinentali, con imprenditori, politici e amministratori – corrispondeva un attacco concentrico sferrato nei suoi confronti dai più diversi centri di potere criminale che avvertivano con chiarezza la minaccia che egli rappresentava per i loro interessi, presenti e futuri. Come ha esplicitato Antonino Giuffrè, Giovanni Falcone era «lottato da tutti», e alla strategia della delegittimazione e dell’isolamento aveva fatto seguito la sua uccisione («è stato isolato e poi successivamente è stato ucciso»), senza che neppure la magistratura, cui egli apparteneva, avvertisse in modo compatto il dovere di difenderlo contro il fuoco concentrico proveniente da ambienti apparentemente molto differenti tra loro, ma uniti da una solida convergenza di interessi.
Della pericolosità dell’isolamento, generato da un’atmosfera complessiva capace di trasformare in vittime potenziali proprio alcuni dei più coraggiosi rappresentanti dello Stato, era ben consapevole Giovanni Falcone, il quale, analizzando lucidamente la matrice comune dei delitti politici commessi da Cosa nostra, spiegava: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande».
Questa impresa criminosa, che per Cosa nostra doveva rappresentare l’espressione della massima potenza, ha segnato, in realtà, l’inizio della fine di un’epoca nella quale la mafia dei ‘corleonesi’ poteva contare su un solido rapporto di alleanza e cointeressenza con numerosi settori del mondo sociale, dell’economia e della politica. Dopo la strage di Capaci, Cosa nostra è stata percepita dall’intero Paese, e dalla comunità internazionale, come un fenomeno criminale di stampo eversivo capace di colpire al cuore lo Stato italiano, e non più come una componente strutturale della società siciliana, una subcultura meridionale, una situazione locale con cui diversi ambienti esterni potevano pensare di convivere in una posizione di malcelata indifferenza, interrotta da saltuarie spinte emozionali.
Si tratta di un evento drammatico che è rimasto scolpito nella memoria collettiva e ha cambiato davvero la storia dell’Italia, ma in senso opposto rispetto a quello che avevano immaginato i vertici di Cosa nostra. Sulla responsabilità dei singoli, si sono ampiamente soffermate le sentenze emesse dall’autorità giudiziaria. Ma, nelle stesse sentenze, si evidenziano le zone d’ombra su cui resta fondamentale un ulteriore approfondimento. Attraverso le più recenti ricostruzioni giudiziarie, è venuto a formarsi un quadro, sia pure non ancora compiutamente delineato, che conferisce maggiore forza alla tesi secondo cui centri di potere esterni a Cosa nostra possono essersi trovati in una situazione di convergenza di interessi con l’organizzazione mafiosa, condividendone i progetti e incoraggiandone le azioni.
Assumono un’indubbia rilevanza, sotto questo profilo, due aspetti: da un lato, l’attività ricognitiva e di ‘indagine’ di Cosa nostra volta a sondare la reazione di ambienti esterni rispetto al proposito di eliminare Giovanni Falcone; dall’altro lato, il cambiamento di programma comunicato da Salvatore Riina in data 4 marzo 1992, che pose fine alla ‘missione romana’ e diede avvio alla preparazione dell’attentatuni. L’idea che la strage di Capaci sia stata un fatto di mafia ‘pura’, immune da contaminazioni esterne e frutto di una decisione ‘autarchica’, si pone in insanabile contrasto con le dichiarazioni rese, nel corso della sua collaborazione con la giustizia, da un boss di primaria importanza che era stato capo del ‘mandamento’ di Caccamo, Antonino Giuffrè.
Quest’ultimo ha sottolineato che, prima di attuare la strategia stragista, erano stati effettuati da Cosa nostra dei ‘sondaggi’ con «persone importanti» appartenenti al mondo economico e politico. Questi sondaggi si fondavano sulla ‘pericolosità’ di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. In un contesto nel quale forza della mafia derivava dai suoi rapporti, imperniati su interessi comuni, con ambienti dell’economia, della politica, delle professioni, della magistratura e dei servizi deviati, è chiaro che proprio da questo tipo di relazioni iniziava l’isolamento che portava all’uccisione di quei «servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere», per usare una famosa espressione di Giovanni Falcone.
Nella sua ricostruzione dello scenario in cui si inseriva la strage di Capaci, Giuffrè ha posto in risalto la campagna di delegittimazione lanciata contro Giovanni Falcone «in tutti i settori» e «su tutti i livelli», nel campo imprenditoriale, politico e giudiziario, sottolineando il ruolo principale svolto da Cosa nostra nell’ambito di questa strategia. Lo stesso collaboratore di giustizia ha esplicitato che i «motivi più gravi» che determinarono l’isolamento, al quale seguì l’uccisione, di Giovanni Falcone, consistevano nel fatto che quest’ultimo «andava a ledere quelli che erano i rapporti professionali, economici, questo intrigo tra la mafi a e organi esterni», facendo riferimento anche ai grandi canali del riciclaggio internazionale. Il Giuffrè ha poi evidenziato il pericolo rappresentato da Giovanni Falcone per i «livelli alti» della politica, specificando che «c’era questo intreccio tra Cosa Nostra, politica di un certo livello e imprenditoria in modo particolare».
Quanto riferito da Antonino Giuffrè sulle ragioni dell’isolamento di Giovanni Falcone corrisponde perfettamente ad alcune delle intuizioni più illuminanti e innovative del magistrato, che, invece di considerare Cosa nostra come una monade chiusa in sé stessa e confinata in una dimensione esclusivamente criminale, aveva puntato lo sguardo sullo sviluppo di un intero sistema di potere fondato sulle complicità mafiose. Giovanni Falcone aveva espresso con chiarezza la convinzione che Cosa nostra fosse coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, e che alcuni gruppi politici si fossero alleati con Cosa nostra nel tentativo di condizionare il sistema democratico, eliminando personaggi che costituivano un ostacolo per gli interessi di entrambe le parti. Aveva chiarito che le logiche mafiose sono in realtà le logiche del potere, sempre funzionali a uno scopo. Aveva sottolineato la straordinaria contiguità economica, ideologica e morale tra mafia e non-mafia.
All’ampiezza e alla profondità delle indagini del magistrato – estese alle sinergie degli esponenti mafiosi, in grado di intessere relazioni associative transcontinentali, con imprenditori, politici e amministratori – corrispondeva un attacco concentrico sferrato nei suoi confronti dai più diversi centri di potere criminale che avvertivano con chiarezza la minaccia che egli rappresentava per i loro interessi, presenti e futuri. Come ha esplicitato Antonino Giuffrè, Giovanni Falcone era «lottato da tutti», e alla strategia della delegittimazione e dell’isolamento aveva fatto seguito la sua uccisione («è stato isolato e poi successivamente è stato ucciso»), senza che neppure la magistratura, cui egli apparteneva, avvertisse in modo compatto il dovere di difenderlo contro il fuoco concentrico proveniente da ambienti apparentemente molto differenti tra loro, ma uniti da una solida convergenza di interessi.
Della pericolosità dell’isolamento, generato da un’atmosfera complessiva capace di trasformare in vittime potenziali proprio alcuni dei più coraggiosi rappresentanti dello Stato, era ben consapevole Giovanni Falcone, il quale, analizzando lucidamente la matrice comune dei delitti politici commessi da Cosa nostra, spiegava: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande».
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