L'anima e quella voglia matta di cantare

L'anima e quella voglia matta di cantare

12.07.2022

«Non abbiamo più esperienza di cose del tutto elementari come camminare scalzi, chinarsi nella radura e scansare dolcemente i rami dalla sorgente per bere piano, o accarezzare la vita inerme che si avvicina a noi. Così siamo divenuti gli “analfabeti emozionali” che oggi siamo, sintetizzava il regista Ingmar Bergman. Non sarà ora di ritornare ai sensi? […] Non è forse giunto l’istante di comprendere meglio quello che unisce sensi e senso?». Parole di José Tolentino Mendonça, tratte da quell’abbecedario per l’anima che è Una grammatica semplice dell’umano, sotto la lettera “i” di Interiorità.

Sensi e senso. Corpo e anima. Cervello e cuore. Un binomio su cui ci si interroga da sempre, nel quale si fa fatica a trovare il giusto equilibrio, con il rischio di perdere il senso, l’anima, nell’affannato circuito quotidiano. Lo sottolinea Catherine Ternynck quando scrive: «Il nostro mondo contemporaneo dà l’impressione di aver perso l’anima», con una postilla importante: «eppure la parola che la indica non è caduta in disuso. Corre a fior di lingua, passa di bocca in bocca. Non è più un termine di chiesa, è una parola di strada. È nello spirito del tempo, persiste come se ancora avesse qualcosa da dire e volesse farsi comprendere.»

Come riconoscerla? Come custodirla? Molte sono le risposte che si trovano anche solo scorrendo alcuni dei titoli dei nostri autori. Tra le varie tracce da seguire ce n’è una semplice e intensa che vogliamo consegnarvi: il canto.

LA VIBRAZIONE GENTILE
Scrive Josep Maria Esquirol in Umano, più umano, intenso saggio su quella “ferita infinita” che è appunto l’anima: «Il canto è qualsiasi vibrazione gentile che si proietta in ciò che facciamo. In una poesia, in un’amicizia, in un lavoro gradevole... Il canto – con le sue molteplici espressioni – fa parte della contingenza, ma non è associato alla massificazione né all’assurdo né all’eccesso né all’impersonalità. E come può accompagnare la malinconia, così può accompagnare la gioia. In entrambi i casi apre e anima.»

UNA VOGLIA MATTA DI CANTARE
Lo racconta una delle prose che la Ternynck alterna alle sue riflessioni nel volume La possibilità dell’anima. Protagonista è una giovane madre povera, che vive d’elemosina, con in braccio il suo neonato. La vita difficile la porta quasi a non rendersi conto della meraviglia della nascita, della straordinarietà di quel fagottino che ancora non parla. Fino a quando un giorno il bambino la guarda a occhi spalancati e lì scopre la meraviglia del dono, della gratuità: «Uno sguardo come lei non ne ha mai visti, vergine di sentimenti, di emozioni, talmente limpido che, in trasparenza, ne scorge l’origine.  Subito s’inquieta. Potrebbe volgere gli occhi, come ha imparato a fare da quando vive per strada».

Ma l’emozione è troppo forte e succede qualcosa di inaspettato: «La prende una voglia matta di cantare. Non l’ha mai fatto, non sa farlo. Cantare, sorridere o sognare richiedono una disposizione interiore cui non ha accesso. La sua esistenza avrebbe dovuto essere meno dura, le necessità vitali meno opprimenti. Le viene in mente una melodia appresa in passato o soltanto sentita. Vorrebbe canticchiarla, non ci riesce. Farfuglia, balbetta, s’impappina. Suoni confusi, note sparse, stonate, e subito la vergogna. Cosa può quel misero motivetto davanti alla richiesta di dono che l’abbraccia? Troppi vuoti, troppe note dimenticate o stonate. Fino a dove donare la mancanza di sé? Ma lo sguardo del bambino resta fisso. Non demorde. Impossibile sottrarvisi. Allora lei scivola nel profondo di sé. Cerca il tesoro nascosto, vorrebbe riportarlo in superficie, fargli superare le labbra... e la voce scappa, va e viene, scivola, si perde e si ritrova. È una voce che non ha niente da dire, una voce senza parole, offerta solo per dirottare il vuoto.

E il piccolo si protende verso quella voce che si confonde con gli occhi, con le labbra e col respiro, con l’intero volto. Egli sente, vede, respira. Si stordisce di rumore, vi si rannicchia, e già vi cerca un brandello di promessa, un aggancio possibile. Il motivetto scorre dall’uno all’altra, rimbalza nell’eco, rimescola le presenze, vorrebbe confonderle, farne una sola. È ancora lei che canta? E lui che ascolta? È lei che dà o lei che riceve il dono? Poco importa, da quel momento nulla sarà più come prima.»

L’anima affiora e canta. Lo racconta anche Pablo d’Ors in Entusiasmo, romanzo sulla vocazione. Nel momento in cui scopre l’amore per Gesù ecco cosa succede: «Mi alzavo e mi sedevo senza sosta, senza sapere cosa fare del mio corpo; oppure andavo avanti e indietro; o avvertivo di nuovo il bisogno imperioso di cantare, d’altronde per esprimere quello che mi esplodeva nel cuore il canto era senz’ombra di dubbio più adeguato di qualsiasi discorso.»  

MENS CONCORDET VOCI 
Canto come preghiera. È il caso di quel libricino di centocinquanta poesie, “centocinquanta gradini”, un libro che, scrive André Chouraqui:

nasconde un mistero,
perché le età non cessino di ritornare a questo canto,
di purificarsi a questa sorgente,
di interrogare ogni versetto,
ogni parola dell’antica preghiera,
come se i suoi ritmi scandissero la pulsazione dei mondi.

I Salmi, «il corpo nel quale il credente s’inoltra per cercare e coltivare l’anima», si legge Nei paesaggi dell’anima (a cura di M.I. Angelini e R. Vignolo), nel contributo di Sabino Chialà, priore della Comunità monastica Bose. Chialà spiega come sia necessario aderire al testo con il cuore e con la mente,  secondo l'invito benedettino del mens concordet voci. Non basta essere un "conduttore" di parole: «pronuncia quelle parole come provenienti dalla tua stessa persona, con discernimento e con passione» come insegna Isacco di Ninive.

«Imbevuto di Salmi», ci ricorda Benoît Standaert in Un libro nelle viscere, era anche san Francesco, che a sua volta comporrà salmi propri e che ci ha lasciato il meraviglioso Cantico delle creature, opera con cui inizia la storia della nostra letteratura. Francesco «condusse la vita dei penitenti praticando l’ascesi, diventando famoso per la sua capacità di entrare in fraternità con ogni essere vivente», scrive Anne Dufourmantelle in La potenza della dolcezza. La sua vita e le sue opere sono forse la miglior testimonianza contro il pericolo dell’analfabetismo emozionale che ricordava Tolentino. 
E il suo Cantico ancora risuona, letteralmente, anche nella musica contemporanea, come nella nota versione che ne ha fatto Branduardi o in quella di Jovanotti, inclusa come traccia nascosta in uno dei suoi album e riproposta a sorpresa ad Assisi, qualche mese fa.

Le nostre vite sono «sentieri di silenzi e di canti, di blasfemie e di preghiere, di delusioni e di sogni» ci dice ancora Esquirol nel libro La penultima bontà (dove dedica un capitolo proprio a san Francesco). Ma nonostante la pressione per ridurre tutto a semplici fatti, «la vita resiste» e ogni persona «è un avvenimento ineffabile».
L'anima resiste, «è prossima e lontana, intima e universale».
Cosa fare? «Diamole una possibilità» (Ternynck).

(di Velania La Mendola)

 
La possibilità dell'anima
La possibilità dell'anima
Autore: Catherine Ternynck
Collana: Grani di senape
Formato: Libro | Editore: Vita e Pensiero | Anno: 2022 | Pagine: 232
Con questo volume delicato e poetico Catherine Ternynck apre una riflessione profonda sull’anima, destinata a essere figura di assenza in un mondo troppo pieno.
€ 18,00

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