Smart working sì o no? Partiamo dai lavoratori
Smart Working Reloaded
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autori: | Luca Pesenti, Giovanni Scansani |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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a cura di Velania La Mendola
Smart working sì o smart working no?
Dobbiamo immaginare un futuro con una piena smaterializzazione del lavoro o è solo una pericolosa utopia che se per alcuni si dipinge come un lavoro da remoto a bordo piscina per altri è solo un ulteriore impoverimento insostenibile? E i sindacati che fine fanno? E le nostre case? Diventeranno uffici mobili senza pause?
Per mettere ordine è bene iniziare chiarendo una volta per tutte cosa intendiamo con la formula del “lavoro agile” o cosa vorremmo che significasse e quali misure necessita per non essere un improvvisato trasloco che rischia di trasformarci in alieni alienati. Lo spiegano Luca Pesenti e Giovanni Scansani nel libro appena pubblicato Smart Working Reloaded, un approfondito lavoro di analisi che, come recita il sottotitolo, delinea Una nuova organizzazione del lavoro oltre le utopie. Li abbiamo incontrati per capire meglio alcuni punti del volume.
Avete curiosamente scelto un brano tratto dalla canzone Extraterrestre di Finardi come epigrafe al volume: qual è il messaggio che volete dare al lettore che si affaccia sulla soglia del vostro lavoro?
Mette in guardia da alcune ambiguità dello smart working che da positivo valore aggiunto al lavoro può trasformarsi in altro. Perché le persone in lavoro da "remoto forzato" che, a detta degli apostoli della remotizzazione, avrebbero vissuto benissimo in quella condizione, secondo noi, dopo un po’ di tempo, si sono invece accorti che la loro «sicurezza comincia(va) a dare segni di incertezza», come recitano i versi di Finardi, e che cominciava a «crescere dentro l’amarezza» perché si «sent(ivano) ancora vuoti» in quanto, tra l’altro, «niente è cambiato». Lavorare da remoto con le stesse dinamiche del lavoro svolto in ufficio (orari, controlli, assenza di obiettivi, routine) ha fatto comprendere che «le paure non se ne sono andate, anzi che semmai sono aumentate» e, stando a casa isolati e senza colleghi, «dalla solitudine amplificate». Allora abbiamo immaginato che questi milioni di lavoratori remotizzati dall’oggi al domani, in maniera improvvisa e sostanzialmente improvvisata (ad eccezione di poche realtà già “smart” da tempo), forse stavano in cuor loro sperando «di comunicare con qualcuno che (li potesse) far tornare». E che magari al loro manager remotizzato, come se si trovasse su un altro pianeta come un extraterrestre, volessero dire: «portami via, voglio tornare a casa mia…voglio tornare per ricominciare».
Anche il concetto di casa è mutato?
Ovviamente la “casa” sopra citata, nel contesto dello smart working, diventa il proprio luogo di lavoro, ma deve intendersi anche in senso letterale, come la propria abitazione dove appunto «tornare per ricominciare» a viverla per quello che deve essere: il luogo degli affetti, della propria intimità, di quella benedetta separazione spazio-temporale dal lavoro nella quale ritrovarsi e che ci sembra essere il presupposto e la prima, basilare e basica misura di reale equilibrio tra vita e lavoro.
Cominciamo allora con il delineare la differenza tra quello che avete definito “lavoro da remoto forzato” e lo smart working vero e proprio.
Il “lavoro forzato da remoto” è stato quello vissuto da milioni di persone soprattutto fino a luglio 2021. Forzato dalla normativa emergenziale, ma anche dalla pur giustificata prudenza delle imprese, preoccupate di non far scoppiare focolai e di garantire la prosecuzione delle attività in sicurezza. Lo smart working è invece uno dei risultati della trasformazione del mindset organizzativo d’impresa: richiede tempo e intelligenza della realtà, coinvolgimento paritetico del sindacato, possibilità di scelta libera, volontaria e consapevole da parte del lavoratore, esercizio di un ruolo e non più esecuzione di una mansione standardizzata basando l’attività su obiettivi condivisi e sulla verifica dei risultati.
Niente di più lontano da quanto accaduto durante la pandemia, insomma…
Con una battuta potremmo dire che non lo è la gran parte di quello che così è stato definito in questi quasi due anni. Non è smart il lavoro remotizzato per decreto, o per obbligo aziendale, senza che ci sia un accordo bilaterale tra azienda e lavoratore, senza un quadro contrattuale definito a livello aziendale. Insomma, non è smart ciò che è privo del requisito della volontarietà dal lato del lavoratore, e non conseguente a una trasformazione della cultura organizzativa dell’impresa. L’autentico smart working è un grande progetto di reingegnerizzazione dell’impresa.
Quali dovrebbero essere gli obiettivi di una riorganizzazione aziendale in chiave smart working?
Sul piano aziendale, una accresciuta efficienza; dal punto di vista dello smart worker, la sua piena “fioritura” come lavoratore in quanto persona e come persona in quanto lavoratore. Questo chiama ad una sfida molto impegnativa, ma crediamo sia stimolante per tutti gli attori del lavoro: imprenditori, manager, lavoratori e ovviamente anche il sindacato. A sua volta, poi, la diffusione dello smart working allarga la sfida ad altri contesti e protagonisti: basta pensare alla necessaria ridefinizione della funzione di altri luoghi (oltre all’impresa e alla casa) che sono e saranno sempre più coinvolti dal fenomeno, come ad esempio taluni spazi urbani e alcuni servizi come i trasporti. Come si comprende si tratta, ad un tempo, di un grande progetto tecnico, ma anche (e forse soprattutto) sociale.
Nel volume, in particolare nel paragrafo intitolato A pranzo con Steve Jobs, affermate che la remotizzazione totale del lavoro è o dovrebbe essere solo un’utopia: perché?
È un’utopia innanzitutto perché anche le stime più ottimistiche immaginano che non più del 30% della forza lavoro possa effettivamente essere impegnata in modalità smart. È un’utopia, perché un progetto di smart working autentico deve prevedere una certa dose di equilibrio tra lavoro svolto da remoto e giornate di presenza in ufficio. Ma lo è anche per motivi antropologici: l’uomo è un “animale sociale”, come già avvertiva Aristotele, e anche il lavoro è relazione. Per questo il lavoro non può prescindere, almeno in parte, dalla co-presenza in comuni luoghi. I giovani imparano a lavorare - e le persone che già lavorano da tempo migliorano le proprie dotazioni umane e professionali - stando dentro un contesto di relazioni, confrontandosi con i comportamenti e i saperi degli altri, sviluppando tanta parte delle proprie competenze anche nell’informalità dei flussi di informazione (e di formazione) dei quali l’ambiente aziendale è ricco proprio in quanto luogo dell’umano (a differenza del “non luogo” espresso da un collegamento online). Non a caso, molti neoassunti in questi mesi hanno lamentato un senso di solitudine se costretti a lavorare da casa per la gran parte del tempo e più in generale forte è stata la sensazione di poter perdere qualcosa.
Insomma la pausa caffè è molto più importante di quanto non si pensi?
Esattamente. L’organizzazione non è fatta solo di meccanismi produttivi, ma anche di tempi interstiziali in cui ci si conosce e si imparano elementi importanti dell’ambito lavorativo: quante cose si imparano parlando con i colleghi alla macchinetta del caffè, nelle pause pranzo con i colleghi, negli scambi di idee casuali in corridoio. Insomma: il lavoro è anche un luogo definito dalle relazioni tra gli uomini. E ogni luogo partecipa alla definizione dell’identità della persona. Pensare di passare la propria vita lavorativa in casa (perché questo sarebbe il destino della larga maggioranza dei lavoratori) rischia di essere un’utopia pericolosa, perché dis-umanizza il lavoro. Lo smart working reale non ha nulla a che vedere con la remotizzazione eremitica: il lavoro agile non presuppone affatto che non si lavori anche in presenza! Ciò che presuppone è tutt’altro e non è certo l’isolamento: è maggiore ingaggio, maggiori responsabilità, forte orientamento ai risultati e maggiore libertà organizzativa (con rottura del binomio “spazio/tempo” nel quadro di una subordinazione da reinventare forse a partire dal suo stesso nome).
È sempre difficile dare risposte brevi a temi complessi, ma provate a indicarmi una virtù e un limite dello smart working.
La grande virtù è quella di lasciare più tempo libero, altrimenti sottratto dagli spostamenti: questo comporta anche meno costi e più possibilità di conciliare tempi della vita (per sé e per i propri cari) e tempi lavorativi. Il limite più grosso è legato al rischio che il lavoro “esondi” nella vita privata, saturandola: paradossalmente ciò che dovrebbe liberarci rischia invece di renderci più schiavi del lavoro, sfondando i confini che la modernità ha posto a tutela della libertà della persona.
Il mondo del lavoro di oggi è certamente molto diverso da quello novecentesco, tanto che parlate di mentedopera anziché di manodopera per indentificare i lavoratori del nuovo millennio. Cosa significa?
La trasformazione organizzativa indotta da un’incessante evoluzione tecnologica, per essere pienamente realizzata, necessita sempre più del pieno apporto cognitivo ed esperienziale delle persone. Questo comporta il passaggio dall’esecuzione routinaria e prefissata di mansioni standardizzate (come tali associate a rigide procedure e burocraticamente riassunte in una job description) all’assunzione di un ruolo che, in quanto tale, va “interpretato” da ciascuno liberando tutto il proprio potenziale. La fatica, la routine, la noia del lavoro appartengono alla fase in cui le aziende avevano bisogno della sola fisicità della manodopera. Oggi, anche sulle linee di produzione, è richiesto un lavoro diverso, maggiormente capace di utilizzare anche l’intelligenza, la cultura tecnica, la capacità di problem solving e di operare con una certa dose di discrezionalità operativa. Le aziende prima, o al pari, della capacità “di fare” nelle persone, a qualunque livello, cercano skill che dimostrino la capacità “di essere”, cercano dotazioni “immateriali” sempre più essenziali per lavorare e produrre risultati nell’epoca di “Impresa 4.0”. Mentedopera, appunto. Ed è proprio “mentedopera” che lo smart working inquadrato nei termini che abbiamo definito è capace di sviluppare nel quadro della grande trasformazione del lavoro e delle organizzazioni d’impresa che è da tempo in atto.
Parlando di diritti dei lavoratori non possiamo evitare di riflettere sul ruolo delle organizzazioni di rappresentanza. Voi parlate di Sindacato Smart: cosa intendete con questa espressione?
Il sindacato è chiamato a raccogliere una sfida in buona parte inedita: trovare strumenti nuovi per intercettare i lavoratori anche se non fisicamente presenti in azienda, comunicando in forma nuova, creando spazi di dialogo attraverso strumenti usualmente non utilizzati. Se non innoverà le sue modalità di rappresentanza, il sindacato rischia di essere travolto dallo tsunami smart working.
Il libro contiente anche una selezione molto interessante di Case History di varie aziende (Findus, Lamborghini, Amplifon, Enel,ecc.) dove si fa brevemente il punto sulle misure adottate durante l'emergenza e sull'eredità di alcune misure che compongono quelle che avete intitolato "prospettive future". C'è un comune denominatore tra le varie scelte aziendali che avete raccolto?
Le testimonianze raccolte mostrano da un lato lo sviluppo di pratiche di “lavoro agile” figlie di una storia pregressa improntata a logiche di benessere organizzativo, dall’altro una capacità di affrontare anche una grave emergenza come quella pandemica riprogettando il mindset organizzativo in modo tale da armonizzare l’innovazione imposta dalle tecnologie con le esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici. Sono loro i primi e ineludibili stakeholders dell’organizzazione.
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