Abbiamo bisogno di pane e di canto
![]() Umano, più umano
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autori: | Josep Maria Esquirol |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Anteprima dal libro del filosofo catalano Josep Maria Esquirol, Umano, più umano, terzo titolo della trilogia della prossimità con La resistenza intima e La penultima bontà. Il brano che segue è tratto dal primo capitolo Viveri concettuali. Buona lettura.
di Josep Maria Esquirol
«Abbiamo bisogno di poco per vivere. Di pane e di canto.
Cantiamo per festeggiare e cantiamo anche per non avere timore. Per celebrare le cose della vita e per non avere tanta paura della morte. È per tale motivo che l’essenza della parola è il canto, e che in ogni parola preziosa palpitano la celebrazione o la protezione. O ancora il sussurro delle parole dolci che accudiscono e riparano, oppure il canto della festa.
Canto che cura e canto che esalta la bellezza del mondo. Il canto accompagna le parole dei poeti, come pure quelle dei grandi pensatori. Eppure non ha nulla di elitario, giacché risuona, nello stesso modo o ancor di più, nelle parole delle persone buone.
Dire – e fare – qualcosa di buono: ecco la prosecuzione del canto. A volte silenzioso, a volte in forme discrete e imprevedibili, il canto – la parola che vibra – è per noi rifugio e cielo. I canti delle ronde erano versioni di canzoni popolari che venivano di solito ripetute per le strade dei villaggi.
Verso la fine del suo capolavoro, Nietzsche racconta che Zarathustra chiede agli uomini superiori di intonare assieme a lui proprio uno di questi canti, in cui è riassunta parte della sua dottrina, della sua buona novella, del suo vangelo. Si tratta del Canto del sonnambulo, che ha per tema la profondità del mondo: «Il mondo è profondo / È più profondo che non pensasse il giorno». Pochi anni dopo, quando Nietzsche ha già perso il senno, nella Sinfonia n. 3 Gustav Mahler affiderà i versi di Zarathustra a un contralto, con note accorate e commoventi.
Quanto è profondo il mondo! Ma che caratteristica ha tale profondità? Vi si può scorgere una sorta di eterno ritorno? Il mondo è molto profondo, certamente, però non soffre per noi. La profondità dell’umano risiede invece nella sofferenza: per tutto e per tutti e, quando vibra più vivo, non è per l’eterno ritorno, bensì per il ritrovarsi.
Il canto della ronda nietzschiano mi ha fatto pensare a un’altra modalità della parola pubblica: quella degli antichi proclami, annunciati dall’inconfondibile suono della cornetta. Anticamente, in ogni villaggio, c’era di solito un banditore incaricato di comunicare ai cittadini vari tipi di notizie, alcune importanti per l’intera comunità e altre utili solo al sindaco e ai proprietari terrieri. Il proclama veniva ripetuto per le strade affinché, dai portoni e dalle finestre, tutti potessero ascoltarlo. E se per caso, un bel giorno, tra gli innumerevoli bandi gridati un po’ dappertutto ve ne sia stato uno che cercava di esprimere un pensiero filosofico?
Riesco quasi a immaginarlo – perché qualcosa di simile deve essere accaduto –: ecco il banditore di un villaggio veneto alla fine del XIX secolo; un banditore che era al contempo un contadino e che, lo sapevano tutti, all’imbrunire si dilettava a leggere libri. I suoi proclami erano molto particolari e quasi mai pienamente comprensibili, ma forse era proprio per questo che erano tanto attesi. Senza dilungarsi troppo, l’uomo annunciava quanto gli era stato chiesto, aggiungendovi però qualcosa di proprio. Sapeva fin troppo bene che, affinché gli altri potessero seguirlo, doveva pronunciare a voce alta frasi brevi, inframezzate da lunghe pause. E sapeva pure che avrebbe fatto meglio a ripetere certi passaggi, soprattutto quelli iniziali, a coloro che, come gli anziani, ci mettono un po’ per affacciarsi. Annotava ogni annuncio sopra un taccuino, in lettere minuscole, a volte con un titolo e a volte con la semplice data. Indicava le pause con un trattino, come nei telegrammi, allora così consueti. Un giorno fece un annuncio ancor più strano del solito, nel quale si rivolgeva a un banditore come lui.
Il titolo era il seguente: Proclama filosofico del mattino. Recitava così:
nulla era necessario – nulla, dovuto – né tu, né cielo – né io, né mondo – né giorno, né notte – però l’alba è spuntata – e un mattino, tempo dopo – la guardia notturna ha annunciato le sei – il lampionaio ha spento le luci – e a mezzogiorno il banditore ha proclamato – che la vita ha forma di arco – come la volta del cielo azzurro – con un lenzuolo e un nome – una bimba è venuta al mondo – ogni giorno, sulla terra piana – vengono erette capanne con assi per tende – e si curva il rigo delle parole – per benedire il gusto di ogni cosa – e consolare il dolore di ogni sguardo – nulla era dovuto – né tu, né cielo – né io, né mondo – né giorno, né notte –
Il titolo di questo libro, Umano, più umano, è nato anche da un dialogo ininterrotto con Nietzsche; titolo che rivela l’orizzonte filosofico verso il quale vale la pena di indirizzare tutti i nostri sforzi. Qualcosa di molto semplice da spiegare: quanto sarebbe bello se ciò che è umano fosse ancora più umano! Essere umano non significa spingersi al di là dell’umano, ma rendere più intenso l’umano che è nell’umano, renderlo più profondo: è questo il valore più grande di tutti. Al contrario, Nietzsche ritiene che l’anomalia umana debba essere superata; si lamenta e si rattrista per la poca forza dell’uomo. Il suo è, in realtà, un luogo comune molto antico, che sottolinea la nostra eccessiva fragilità. Tuttavia varrebbe la pena chiedersi se davvero la debolezza sia sempre una manifestazione di viltà. E se, di colpo, Abramo fosse stato incapace di obbedire al comando divino e non avesse accettato di uccidere il proprio figlio? Poca fede o troppa umanità? Sono per me densi di significato i versi che Luigi Groto, drammaturgo italiano del Rinascimento, compone in una versione teatrale di questo dramma biblico.
Mentre Abramo si dispera per la sua situazione tragica e per la sua debolezza, afferma: «Ah troppo effeminato, Ah troppo humano». Proprio così! Essere troppo umano qui coincide con l’essere troppo debole e troppo effeminato – in un senso letterale, essere troppo femminile. Davanti al tragico – e disumano! – ordine divino di sacrificare il proprio figlio, un Abramo perplesso e angosciato si domanda cosa fare. È affranto, geme, e attribuisce spontaneamente la sua debolezza al fatto di essere umano, troppo umano. Sia l’idea sia l’espressione letterale di Groto avrebbero potuto benissimo ispirare – chissà se è andata così – il titolo del libro di Nietzsche, Umano, troppo umano, così come ora hanno contribuito a ispirare il mio, Umano, più umano, che non è né un lamento né un’offesa, al contrario. Cosa può esserci di più umano di una simile debolezza? È questa la tesi del nostro libro.
Oltre al dialogo con Nietzsche, il titolo Umano, più umano esprime la risposta a una delle evasioni ideologiche della nostra epoca: il transumanesimo, che mostra le sue allettanti promesse di un oltre rispetto all’umano. Non mi riferisco ovviamente alle conquiste che potremmo raggiungere grazie alle innovazioni biotecnologiche, bensì all’ideologia che le accompagna e le ‘abbellisce’. Che triste paradosso: aspirare e credere di spingerci ben oltre l’umano e insieme avere così poca umanità! In altre parole, smarrire la strada e non capire che l’orizzonte più importante non si trova più in là − più lontano − ma più in profondità.
Ognuno di noi sa per esperienza di essere fallibile, poco o molto. Ma va detto che pure le civiltà possono sbagliarsi. E non c’è nemmeno bisogno di citare degli esempi storici: da tempo la nostra ha smarrito la bussola, o forse non è mai riuscita a seguirla in maniera giusta. È da un paio di secoli che viviamo all’insegna dell’insistente retorica del progresso, eppure le sue vittime hanno continuato scandalosamente ad ammassarsi nelle fosse. Il XX secolo ha messo in evidenza che l’estrema barbarie della violenza totalitaria è ancora più possibile – e probabile – di quanto non lo fosse mai stata. Il governo del mondo continua a essere ancora troppo pieno di banalità e interessi personali.
Tutti, nessuno escluso, abbiamo trattato la terra come un deposito quasi fino a svuotarla, fino a ridurla a discarica. Nel frattempo, la trasformazione tecnologica della società, con la connivenza del consumismo, ci ha narcotizzato e, senza che ce ne accorgiamo, minaccia di trascinare tutti sull’orlo del baratro. Per ritrovare la bussola e seguirla, per orientarsi, servirebbero dei cambiamenti, radicali quanto improbabili. Eppure mai desistere, mai; anzi, bisogna resistere dal proprio piccolo angolo di mondo.
Chissà, il nostro contributo potrà pure essere modesto, ma tutto conta.
Così, ad esempio, nei momenti di grande smarrimento, urge lo sforzo di concentrarci su quanto è fondamentale per fare bene. Poiché, sebbene proliferino teorie di ogni genere, la conoscenza che abbiamo di noi stessi non ha mai raggiunto livelli così bassi, per ritrovare la bussola potrebbe aiutarci scorgere che l’umano, alla radice, è più legato alla responsabilità radicale che al potere; che una civiltà più umana porta a considerare il mondo come una casa e non a uscire di casa per dominare il mondo; una cultura più umana, ancora, non è una cultura della paura o del nichilismo, ma una cultura che sa comprendere che la forza più intensa è quella che si coniuga con il senso.
Nella debolezza, nell’umano, nella vulnerabilità... in questo troppo che è, in realtà, un più, pulsa la verità.»
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