La propria vita/la vita
Elogio del rischio
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autori: | Anne Dufourmantelle |
formato: | Libro |
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In un momento storico in cui la sicurezza è la nostra prima preoccupazione è opportuno parlare dei benifici del rischio? «Il rischio è un kairos» scrive Anne Dufourmantelle in Elogio del rischio «nel senso greco dell’istante decisivo» perché apre uno spazio sconosciuto e segna il nostro rapporto con il tempo. È «una lotta in cui non conosciamo l’avversario, è un amore di cui non conosciamo il volto, è un desiderio che aspira all’ignoto». Secondo la filosofa e psicanalista francese è proprio questo ignoto che temiamo, di fronte al quale indietreggiamo, e «un po’ moriamo». Perché spesso, scrive, «per volerla proteggere troppo, finiamo per perderla, la vita. Quella vera, ricca di senso, di amore, di gioia».
Poetico e profondo, Elogio del rischio è ancora più toccante perché racchiude anche il destino dell'autrice tragicamente morta a 53 anni, mentre cercava di salvare due bambini dall’annegamento. Di seguito l'anteprima del capitolo intitolato La propria vita/la vita.
«Quel che lega ciascuno di noi al rischio è la nostra stessa vita. In fondo, è quel che dicono le parole: rischiare la propria vita.
Ma cosa significa il possessivo venuto surrettiziamente a imporsi qui: la ‘propria’ vita: vale a dire quella che è nostra in proprio, e non la vita e basta? Qual è lo statuto del possessivo propria? Fino a che punto la nostra vita è veramente la nostra e cosa possediamo davvero quando diciamo «la ‘mia’ vita»? Marie Depussé dice, nel suo bellissimo libro su La Borde,* che i pronomi possessivi sono dei piccolissimi bastioni che vengono eretti per proteggersi dal reale, o dal desiderio, il che talvolta è la stessa cosa, ma in ogni caso si tratta di quel che viene a sconvolgere il bell’ordinamento del nostro mondo, gli alibi che si sono trovati, i ricordi che si venerano e quelli che si tacciono, i margini della vergogna come quelli dell’angoscia di cui nessuna frontiera viene a capo.
Dire ‘rischiare la propria vita’ significa essere vivo nella ‘propria’ vita e considerarla come un evento che può essere catastrofico o meraviglioso, vale a dire considerare la possibilità che la morte giunga a seppellirla, ricoprirla, deviarla da essa stessa o da sé. Si tratterebbe di rischiare nell’impersonalità di un certo rischio ciò che più è proprio, vale a dire il possessivo della ‘mia’ vita. Cosa ho d’altro nell’esistenza, di fatto, se non la mia vita? Tutto il resto può essermi tolto: persone care, oggetti, corporeità (almeno certe parti non vitali del mio corpo, ciò per cui il mio corpo non è soltanto e totalmente la mia vita).
Forse è questo il giacimento di vita intensa, quella che è venuta a patti con i morti e la memoria e la storia di coloro che non avranno mai parole per trasmetterla. Forse è là che giace il rischio della ‘propria’ vita: che essa sia assolutamente singolare e tuttavia non la nostra... Come ogni esperienza sconvolgente, la vita non ci appartiene e tuttavia solo noi l’abbiamo vissuta e siamo stati trasformati da essa. Abbastanza per giudicare, a cose fatte, al futuro anteriore, che la vita si è rischiata fin là, forse, in noi. Che tale ospitalità, come quella della follia, del delirio amoroso, era una violenza, ma che a essa siamo sopravvissuti, nel bene o nel male, e che ce la siamo cavata. Che è la vita che ci ha così rischiati, contro la morte e con essa, contro gli affetti, le lealtà, le difese, le famiglie, la vergogna, il seppellimento di ogni memoria, perché in quell’istante siamo stati dei passatori, in genere inconsciamente, vale a dire in un’incandescenza, in una tristezza, una dipendenza, una rivolta, un’immaginazione, un amore, un silenzio a noi ignoti e che pure hanno in noi trovato asilo.
Dire: rischio la mia vita è quasi impossibile – proviamo solo in rarissimi momenti una simile coincidenza, ma occorre credere che si possa dire: la vita si è arrischiata in lui o in lei, quali testimoni, a riconoscere tutto questo in una fraternità dolorosa, forse, ma vera.
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