La voce nella tempesta
![]() Sulla consolazione
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autori: | Michael Ignatieff |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Sulla consolazione di Michael Ignatieff, saggista e intellettuale canadese, è una meditazione storico-filosofica attraverso ritratti dedicati a grandi figure e alla loro ricerca di consolazione. Dalla storia biblica di Giobbe, di cui l'anteprima di seguito tratta dal capitolo La voce nella tempesta, alle testimonianze di Anna Achmatova e Primo Levi.
di Michael Ignatieff
«La speranza di cui abbiamo bisogno per la consolazione dipende dalla convinzione che la nostra esistenza abbia un senso, o che sia possibile darle un senso grazie ai nostri sforzi. Questa è la fede che ci permette di vivere nell’aspettativa della guarigione e del rinnovamento. Da essa dipende la consolazione, che pertanto è inevitabilmente un’idea religiosa, anche se, come vedremo, il senso datoci dalla speranza può assumere forme non religiose e perfino antireligiose. Tuttavia, è dalla ricerca religiosa del senso della sofferenza che dobbiamo partire. Le religioni assolvono molte funzioni, e una di queste è consolare, spiegare perché gli esseri umani soffrono e muoiono e perché, a dispetto di questi fatti, dobbiamo vivere nella speranza. [...]
Il libro di Giobbe immagina un uomo che gode di grande fortuna – buona salute, una famiglia felice, stalle piene di animali e granai colmi, distese di campi coltivati – e perde tutto perché Dio decide di mettere alla prova la sua fede. Si tratta di un Dio onnipotente, ma anche di un Dio umano nella sua suscettibilità alla tentazione e ai cattivi consigli. Una figura individuata nel racconto come il satan – che Alter traduce come «l’avversario» – insinua che la fede di Giobbe dipenda solo dalla sua prosperità. Un uomo fortunato, suggerisce, volterebbe le spalle a Dio se la fortuna, a sua volta, le voltasse a lui. Dio mette alla prova la fede di Giobbe inviando tribù di predoni a uccidere il suo bestiame, dare fuoco alla sua casa e uccidere i suoi figli. Quando un messaggero gli reca questa notizia – «Sono scampato solo io per raccontarlo a te» – Giobbe piange, si strappa le vesti, si rade la testa, si inchina di fronte a Dio, ma la sua fede non vacilla. Invece di lasciarsi andare alla collera o al dolore, Giobbe dichiara, nelle parole della Bibbia di Re Giacomo: «il Signore ha dato e il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore». L’avversario allora sussurra all’orecchio di Dio che «Un uomo darebbe tutto ciò che ha per la propria vita». Colpiscilo nelle ossa e nella carne, e vedi se mantiene la sua fede. E così Dio consegna Giobbe all’avversario, chiedendogli solo che gli sia risparmiata la vita. L’avversario colpisce Giobbe con la lebbra, ma Giobbe sopravvive, malato e povero, davanti alle ceneri di un focolare spento, grattandosi le piaghe. Sua moglie lo rimprovera. «Maledici Dio e muori», grida. Eppure, sebbene la sua disperazione sia nera come la notte, Giobbe rifiuta di abbandonare il suo Dio. A questo punto della storia, tre amici, venuti per confortarlo, si siedono accanto a lui e dapprima condividono il suo dolore in silenzio. «Nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore». Poi ciascuno, a turno, cerca di convincerlo ad accettare il proprio destino. La tua fede viene messa alla prova, gli dicono, e tu questa prova devi superarla. Giobbe ascolta a denti stretti, nient’affatto convinto. È inconsolabile.
Il Dio nel quale aveva riposto la propria fiducia, il Dio che amava, lo sta punendo senza alcun motivo. Perché Dio lo tiene in vita, chiede Giobbe, quando egli anela la morte «ma essa non viene»? Gli amici allora diventano più critici. La sua disperazione svanirà, gli dicono, solo quando egli riconoscerà i suoi errori. «Come può un uomo mortale essere più giusto di Dio?». Invece di lamentarsi, Giobbe dovrebbe essere grato per le afflizioni, che sono la giusta punizione per i suoi peccati. Ma Giobbe non ascolta. Adesso non è solo l’infedele malignità di Dio a tormentarlo, ma anche un nuovo senso dell’insignificanza cosmica dell’uomo. «L’uomo nato da donna è di pochi giorni e pieno di affanni». La pianta e l’albero più modesti muoiono con l’autunno per rinnovarsi ogni primavera; ma l’uomo muore un’unica volta e le sue ossa diventano polvere. La speranza, sta dicendo Giobbe, dipende dalla fede nel fatto che la vita umana abbia importanza agli occhi di Dio. Ma se non fossimo affatto importanti? Gli amici si appoggiano all’ammissione di insignificanza di Giobbe per umiliarlo ancora di più, ma Giobbe si difende. La sua stessa disperazione è un modo di insistere, nonostante tutto, sulla sua importanza nell’ordine complessivo delle cose. Disperato, Giobbe rasenta la blasfemia, arrivando a chiedere: che cos’è questo Dio che adoriamo? Perché obbediamo a qualcuno che ci tormenta? Gli amici tentano di convincere Giobbe che la strada per la consolazione consista nell’accettare la colpa delle sue disgrazie, ma Giobbe si rifiuta. Lui è stato fedele a Dio: ha accettato ciò che Dio ha dato e ha accettato ciò che Dio ha tolto. Che cosa gli si può chiedere di più? Che confessi di essere colpevole quando crede di essere innocente? «Tengo salda la mia rettitudine, e non la lascerò andare». Umiliarsi, ribatte Giobbe, non è la strada per la consolazione, ma, appunto, per l’umiliazione. Non accetterà altri consigli da questi «medici di nessun valore». Non sono ascoltato, dice loro, né da voi, né da Dio. Non c’è nessuna consolazione se non si viene ascoltati. Non gli importa più di cosa gli uomini hanno da dirgli: la questione è tra lui e Dio. «Vorrei parlare all’Onnipotente, e desidero ragionare con Dio». Questa figura coperta di piaghe, indigente e abbandonata, vestita di stracci, è un’invenzione stupenda: il vero antenato di tutti i grandi giganti offesi e auto-offesi della letteratura fino a re Lear e oltre.
Giobbe agita il pugno contro il cielo. «Parlerei» tuona «e senza temerlo, perché non è da me». Giobbe si arroga il diritto di rispondere, di pretendere risposte. Questa è la devozione intesa come dialogo e discussione. In Giobbe, e nella tradizione profetica ebraica, la ricerca umana della consolazione diviene una richiesta di approvazione divina, un grido che insiste sul proprio diritto di essere ascoltato. Il Dio di Giobbe non resta in silenzio, ma si pronuncia dal mezzo della tempesta in una maestosa invettiva. Chi, pretende di sapere, osa sfidarlo? Ha Giobbe la minima idea del suo potere? «Dov’eri tu quando io gettavo le fondamenta della terra?». Come può un misero essere umano azzardarsi a mettere in dubbio il potere di chi ha messo le stelle nel cielo, creato il mare, circondato la terra con le nubi? Chi sei tu per dirmi che cosa devo fare? Come osi tu, grida Dio, accusarmi delle tue sofferenze? «Vuoi condannare me, per giustificare te stesso?» Agli occhi di Dio, Giobbe è inaccettabilmente arrogante, perché osa incolpare Dio dei propri tormenti. Giobbe deve fare pace con ciò che non è in grado di comprendere. La voce nella tempesta insiste sull’obbedienza, ma offre anche riconoscimento: quando la voce cessa di parlare, Giobbe sa che Dio lo ha ascoltato, e accetta di riconciliarsi con un potere divino che non può sperare di comprendere. La sua riconciliazione con Dio comincia dall’ammissione della propria ignoranza, ma non della propria colpa. «Ho detto cose che non comprendevo; cose troppo grandi per me, che non conoscevo». Adesso che ha parlato ed è stato ascoltato, c’è dignità nella sua resa. Giobbe abiura la sua sofferenza, piuttosto che ammettere le proprie colpe: «Perciò mi ricredo e mi pento tra polvere e cenere».
Un amico erudito mi dice che l’espressione ebraica per «e mi pento», qui, è v’nikhamti, dalla radice N-Kh-M: la stessa della parola ebraica per ‘consolazione’. La lingua ebraica connette l’idea di consolazione a un cambiamento d’animo nei confronti del dolore stesso. Il dolore può essere un’ostinata ossessione, e quello di Giobbe è di un tipo simile. [...]
Nella storia di Giobbe, Dio pretende assoluta obbedienza come condizione per la consolazione, ma richiede anche qualcos’altro: la fedeltà alla propria verità individuale. Giobbe rifiuta di ammettere la propria colpa: chiede che la sua innocenza sia riconosciuta, da Dio come dai falsi consolatori. Paradossalmente, mantiene la sua fede chiedendo giustizia. Chiedere giustizia significa infatti aver fede nel fatto che il mondo sia abbastanza sensato perché la giustizia sia possibile, e che Dio abbia il potere di garantirla. Se questa interpretazione è corretta, l’autore della storia di Giobbe vuole che comprendiamo che, se c’è consolazione nell’obbedienza, non c’è alcuna consolazione nella rassegnazione impotente. Se applichiamo questa idea alle nostre vite, la consolazione può risollevarci dalle profondità della disperazione solo se abbiamo il coraggio di chiedere riconoscimento, a noi stessi e agli altri, rispetto alla realtà della nostra sofferenza e rifiutiamo le false consolazioni di coloro che negano ciò che abbiamo passato o sostengono che sia giustificato.Il racconto di Giobbe ci consiglia anche di smettere di porre la domanda che così spesso ci tormenta nei momenti di dolore: perché a me? Dio dice a Giobbe, e quindi anche a noi, che a questa domanda non c’è risposta. Negli ultimi versetti del racconto biblico, come a venire premiato per questa nuova consapevolezza, Giobbe recupera ricchezze, famiglia, casa e salute.
Il libro di Giobbe si conclude informandoci che egli alla fine «morì vecchio e sazio di giorni», in pace col suo Dio. Il libro di Giobbe è la descrizione di un ordine del mondo nel quale la consolazione è possibile perché la divinità non è muta. Gli esseri umani sono parte di questo mondo, non sono separati da esso, e anche se quest’ordine può essere imperscrutabile, è possibile per Giobbe accettare che la sua sofferenza, per quanto insopportabile, abbia un significato agli occhi di Dio come prova della sua fede: l’ingiustizia del mondo di Dio può essere difficile da accettare, ma è l’opera di un’intelligenza che eccede la nostra comprensione, non di un caso arbitrario e privo di senso. Oggi coloro che ancora parlano con Dio, come Giobbe, vivono nella speranza che le loro preghiere riceveranno risposta, ma sanno anche che Dio potrebbe non rispondere: il conforto della preghiera consiste nell’atto stesso di pregare e nella comunione con sé stessi che ne risulta. Le persone che pregano non si aspettano più di sentire una voce nella tempesta: nella modernità, ci siamo abituati ad aspettare Dio in silenzio. La grande pensatrice e mistica Simone Weil, morta nel 1943, ha riflettuto profondamente sulla storia di Giobbe, pensando sempre alla propria relazione con Dio come a una forma di attesa, con spirito di pazienza e di speranza: non attendeva di essere consolata, affermava, ma solo di sentire che Dio c’era. Nell’opera di Beckett Aspettando Godot, la visione della relazione umana con il divino è più tetra e più comica: Vladimiro ed Estragone aspettano, parlano, aspettano ancora, e nessuno parla con loro al di là della nebbia.
Ci siamo abituati al silenzio. Ma allora, è possibile identificarsi con la storia di Giobbe per chi non riesce ad accettare il Dio di Giobbe, o ad aspettare che parli? Qualsiasi cosa pensiamo di Giobbe e del suo Dio, è da qui che deve partire qualsiasi storia dell’idea di consolazione, perché questo racconto descrive in modo chiarissimo la condizione umana. La storia di Giobbe ci spiega che siamo destinati a sopportare dolore e sofferenza senza apparente significato, momenti in cui l’esistenza è un tormento, in cui sperimentiamo che cosa significhi essere davvero inconsolabili; ma, come Giobbe, dobbiamo imparare a sopportare, dobbiamo aggrapparci alla verità di ciò che abbiamo vissuto e rifiutare le false consolazioni, come credere che meritiamo di soffrire. Dobbiamo rifiutare il peso della colpa e della fatica come meglio possiamo per comprendere il significato delle nostre vite: non siamo condannati al silenzio eterno, all’insignificanza. C’è una risposta nella tempesta, nell’incontro eternamente tormentato degli esseri umani con il fato, ma per trovare una risposta che sia vera per noi, dovremo essere coraggiosi come l’uomo vestito di stracci che osò alzare il pugno contro il cielo».
di Michael Ignatieff
«La speranza di cui abbiamo bisogno per la consolazione dipende dalla convinzione che la nostra esistenza abbia un senso, o che sia possibile darle un senso grazie ai nostri sforzi. Questa è la fede che ci permette di vivere nell’aspettativa della guarigione e del rinnovamento. Da essa dipende la consolazione, che pertanto è inevitabilmente un’idea religiosa, anche se, come vedremo, il senso datoci dalla speranza può assumere forme non religiose e perfino antireligiose. Tuttavia, è dalla ricerca religiosa del senso della sofferenza che dobbiamo partire. Le religioni assolvono molte funzioni, e una di queste è consolare, spiegare perché gli esseri umani soffrono e muoiono e perché, a dispetto di questi fatti, dobbiamo vivere nella speranza. [...]
Il libro di Giobbe immagina un uomo che gode di grande fortuna – buona salute, una famiglia felice, stalle piene di animali e granai colmi, distese di campi coltivati – e perde tutto perché Dio decide di mettere alla prova la sua fede. Si tratta di un Dio onnipotente, ma anche di un Dio umano nella sua suscettibilità alla tentazione e ai cattivi consigli. Una figura individuata nel racconto come il satan – che Alter traduce come «l’avversario» – insinua che la fede di Giobbe dipenda solo dalla sua prosperità. Un uomo fortunato, suggerisce, volterebbe le spalle a Dio se la fortuna, a sua volta, le voltasse a lui. Dio mette alla prova la fede di Giobbe inviando tribù di predoni a uccidere il suo bestiame, dare fuoco alla sua casa e uccidere i suoi figli. Quando un messaggero gli reca questa notizia – «Sono scampato solo io per raccontarlo a te» – Giobbe piange, si strappa le vesti, si rade la testa, si inchina di fronte a Dio, ma la sua fede non vacilla. Invece di lasciarsi andare alla collera o al dolore, Giobbe dichiara, nelle parole della Bibbia di Re Giacomo: «il Signore ha dato e il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore». L’avversario allora sussurra all’orecchio di Dio che «Un uomo darebbe tutto ciò che ha per la propria vita». Colpiscilo nelle ossa e nella carne, e vedi se mantiene la sua fede. E così Dio consegna Giobbe all’avversario, chiedendogli solo che gli sia risparmiata la vita. L’avversario colpisce Giobbe con la lebbra, ma Giobbe sopravvive, malato e povero, davanti alle ceneri di un focolare spento, grattandosi le piaghe. Sua moglie lo rimprovera. «Maledici Dio e muori», grida. Eppure, sebbene la sua disperazione sia nera come la notte, Giobbe rifiuta di abbandonare il suo Dio. A questo punto della storia, tre amici, venuti per confortarlo, si siedono accanto a lui e dapprima condividono il suo dolore in silenzio. «Nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore». Poi ciascuno, a turno, cerca di convincerlo ad accettare il proprio destino. La tua fede viene messa alla prova, gli dicono, e tu questa prova devi superarla. Giobbe ascolta a denti stretti, nient’affatto convinto. È inconsolabile.



Nella storia di Giobbe, Dio pretende assoluta obbedienza come condizione per la consolazione, ma richiede anche qualcos’altro: la fedeltà alla propria verità individuale. Giobbe rifiuta di ammettere la propria colpa: chiede che la sua innocenza sia riconosciuta, da Dio come dai falsi consolatori. Paradossalmente, mantiene la sua fede chiedendo giustizia. Chiedere giustizia significa infatti aver fede nel fatto che il mondo sia abbastanza sensato perché la giustizia sia possibile, e che Dio abbia il potere di garantirla. Se questa interpretazione è corretta, l’autore della storia di Giobbe vuole che comprendiamo che, se c’è consolazione nell’obbedienza, non c’è alcuna consolazione nella rassegnazione impotente. Se applichiamo questa idea alle nostre vite, la consolazione può risollevarci dalle profondità della disperazione solo se abbiamo il coraggio di chiedere riconoscimento, a noi stessi e agli altri, rispetto alla realtà della nostra sofferenza e rifiutiamo le false consolazioni di coloro che negano ciò che abbiamo passato o sostengono che sia giustificato.Il racconto di Giobbe ci consiglia anche di smettere di porre la domanda che così spesso ci tormenta nei momenti di dolore: perché a me? Dio dice a Giobbe, e quindi anche a noi, che a questa domanda non c’è risposta. Negli ultimi versetti del racconto biblico, come a venire premiato per questa nuova consapevolezza, Giobbe recupera ricchezze, famiglia, casa e salute.
Il libro di Giobbe si conclude informandoci che egli alla fine «morì vecchio e sazio di giorni», in pace col suo Dio. Il libro di Giobbe è la descrizione di un ordine del mondo nel quale la consolazione è possibile perché la divinità non è muta. Gli esseri umani sono parte di questo mondo, non sono separati da esso, e anche se quest’ordine può essere imperscrutabile, è possibile per Giobbe accettare che la sua sofferenza, per quanto insopportabile, abbia un significato agli occhi di Dio come prova della sua fede: l’ingiustizia del mondo di Dio può essere difficile da accettare, ma è l’opera di un’intelligenza che eccede la nostra comprensione, non di un caso arbitrario e privo di senso. Oggi coloro che ancora parlano con Dio, come Giobbe, vivono nella speranza che le loro preghiere riceveranno risposta, ma sanno anche che Dio potrebbe non rispondere: il conforto della preghiera consiste nell’atto stesso di pregare e nella comunione con sé stessi che ne risulta. Le persone che pregano non si aspettano più di sentire una voce nella tempesta: nella modernità, ci siamo abituati ad aspettare Dio in silenzio. La grande pensatrice e mistica Simone Weil, morta nel 1943, ha riflettuto profondamente sulla storia di Giobbe, pensando sempre alla propria relazione con Dio come a una forma di attesa, con spirito di pazienza e di speranza: non attendeva di essere consolata, affermava, ma solo di sentire che Dio c’era. Nell’opera di Beckett Aspettando Godot, la visione della relazione umana con il divino è più tetra e più comica: Vladimiro ed Estragone aspettano, parlano, aspettano ancora, e nessuno parla con loro al di là della nebbia.

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