Caduta libera. Forme empatiche di esperienza filmica della città
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Suicidi, omicidi, incidenti, sfide sportive, voli supereroici, gag. Lungo l’intero arco della storia del cinema la rappresentazione della caduta del corpo umano dagli edifici della metropoli è una figura ricorrente e, quasi sempre, di grande impatto visivo ed emotivo. Con l’avvento della Modernità, l’uomo ha slanciato le sue creazioni (non solo architettoniche) verso il cielo, ingaggiato una sfida con i propri limiti e con la forza di gravità. L’altitudine e il volo, la vertigine e la velocità, l’ascesa e il crollo hanno trovato una declinazione anche nel cinema, medium designato a tradurre in immagine e suono quel desiderio di libertà e liberazione. Un desiderio che i terribili eventi dell’11 settembre 2001 hanno irrimediabilmente scalfito. L’immagine dei miserabili corpi delle persone che, di fronte all’unica possibilità della morte, hanno drammaticamente optato per quell’ultimo volo sono entrate con violenza nell’immaginario collettivo. Ma la natura di tale violenza immaginaria era già fatalmente presente nel cinema e nelle sue possibilità rappresentazionali. L’ambivalenza, anzi l’ambiguità, del desiderio umano insito nella caduta – libertà e liberazione, vitalità estrema e insuperabilità della morte – trova da sempre nel cinema un terreno di “messa in forma” concreta, ponendo lo spettatore di fronte a un’esperienza non solo sensoria, ma anche e ancor più sensibile. Un’esperienza cioè in cui non sono chiamate in causa solo le facoltà percettive e cognitive dello spettatore, ma anche la sua corporeità. In essa, gli elementi concreti legati alle condizioni spaziali e alla situazione percettiva, intersecati con gli elementi audiovisuali simbolici e con i processi cognitivi di comprensione della narrazione, sono intimamente correlati agli aspetti poetici e patemici. Nel suo complesso, l’esperienza filmica coinvolge due sfere della corporeità sensibile: il motorio e l’emotivo. Nel solco tracciato dalla fenomenologia (da cui hanno attinto la psicologia sperimentale, la filmologia e per alcuni aspetti il cognitivismo), la teoria del cinema ha recentemente cominciato a interessarsi con maggiore rigore e sistematicità al ruolo del corporeo e del sensibile nell’ambito della ricezione filmica, in linea con la tendenza degli studi semiologici a concentrarsi sugli aspetti esperienziali (e non più segnici e testuali) delle pratiche umane di significazione e comprensione della realtà e dei prodotti mediali. Al contempo, i progressi nel campo delle neuroscienze – in particolare la scoperta dell’esistenza e dell’attività dei “neuroni specchio” nel cervello umano – stanno contribuendo ad affermare la natura intuitiva e pre-riflessiva dei processi di imitazione motoria e di compartecipazione emotiva. L’empatia, concetto ambiguo sin dalle sue origini (nel campo dell’estetica e della fenomenologia), sembra essere stato elevato a “strumento unico” di comprensione ed esplicitazione delle pratiche di condivisione dell’esperienza. Eppure, per quanto da sempre presente nelle implicazioni filosofiche delle teorie filmiche di matrice psicologica, il modello empatico è stato sostanzialmente respinto dal cognitivismo, perché considerato troppo “riduttivo” o non necessario alla spiegazione dei processi di coinvolgimento emotivo dello spettatore (soprattutto rispetto al personaggio). Se la rappresentazione cinematografica della caduta del corpo umano nello spazio vuoto costituisce un ottimo esempio di “messa in forma” della relazione fra il corpo proprio e il corpo rappresentato, allora vagliare la tenuta della nozione di empatia nell’ambito dell’esperienza filmica può rivelarsi una buona strategia per capire in che modo lo spettatore fa esperienza della relazione con l’Altro, con il mondo e con il Sé.
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