Carceri
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Quasi per definizione, accostare carceri e media origina cortocircuiti. Laddove il carcere separa, il medium connette; laddove il carcere rinchiude, il medium apre; laddove il carcere amputa, il medium estende; laddove il carcere occulta, il medium mostra. E così via, in una lunga serie di paradossi simbolici, sociologici e linguistici che ci dicono molto – perlomeno in potenza – tanto sulle forme di disciplina, quanto su natura, funzione e scopo dei media. A ben vedere, la tensione fra media e carcerazione attraversa tutta la storia di quella che definiamo “modernità” – un periodo segnato da un pas de deux fra tecnologia e società. Semplificando, sono ravvisabili due poli. Da un lato, i media sono stati largamente considerati come elementi funzionali (quando non costitutivi) rispetto a un dispositivo carcerario focaultianamente inteso come puntiforme e diffuso. L’assunto di fondo è che l’intera società moderna, rotti gli originari “equilibri societari”, necessiti di forme di coercizione disciplinare diffuse per irreggimentare i cittadini dentro forme di produzione avanzate (si veda tutto il tema dei surveillance studies, per cui questa tensione si incarna in dispositivi tecnologici). Di questo “carcere invisibile” i circuiti mediali costituirebbero il sistema nervoso, oltreché fornirvi alcuni organi direttivi: occhi, orecchie, bocca. |
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