Le prigioni del linguaggio pubblicitario. E alcuni piani internazionali di fuga
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Il carcere, di per sé, non sembra presentare alcuna caratteristica atta a un suo efficace utilizzo come location per uno spot pubblicitario contemporaneo: oltre alla sua dimensione denotativa, l'ampia e variegata dispersione connotativa lo rendono in linea di principio un ambiente con una scarsa valenza attrattiva per le imprese, intenzionate da sempre a promuovere nel migliore dei modi (quindi in ambienti da sogno e con personaggi positivi e da imitare) i loro prodotti e servizi. A meno di non ricorrere a strategie discorsive che siano in grado di aprire un gioco comunicativo in cui si lascia al destinatario il compito di percepire l'eventuale incoerenza di base e di chiudere così, correttamente, il percorso di senso dell'emittente. Si tratta di una strategia che per “cultura comunicativa” non appartiene, tendenzialmente, al linguaggio pubblicitario italiano, «non fa parte del nostro dna […], nonostante in altri campi il made in Italy si riconosca per la straordinaria capacità di generare il sorriso»: dalla musica alla moda fino al design1. Tenendo in considerazione tali premesse, due recenti casi pubblicitari incentrati a vario titolo sulla rappresentazione del carcere, veicolati a livello nazionale (la campagna IKEA 2010 “Basta poco per cambiare”) e internazionale (lo spot Audi A8, proiettato durante l'ultimo Super Bowl americano, “Escape the confines of the old luxury”) ci hanno spinto a compiere una prima indagine desk. L'intento è stato quello di rintracciare, inprimo luogo, un primo campione di casi promossi da brand di spicco che – a loro modo – hanno cercato di sfidare a livello locale gli stilemi comunicativi della cultura comunicativa nostrana; in secondo luogo, di rinvenire nel caso pubblicitario internazionale possibili elementi chiave legati all‟utilizzo del carcere quale luogo pubblicitario. |
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