«Tradurre il Concilio in italiano». Queste parole del card. Tettamanzi, che hanno aperto il recente Convegno Ecclesiale di Verona, esprimono bene l’intenzione della Rivista, nell’inaugurare con questo articolo di G. Rota un nuovo filone di contributi: lavorare perché, ora che sono finite le grandi celebrazioni e i grandi anniversari, non conosca rallentamenti l’opera di recezione dei temi e degli impulsi che il Concilio Vaticano II ha saputo dare alla Chiesa italiana.Temi come quelli del popolo di Dio, dell’assemblea, della Chiesa locale, del mondo, della Parola di Dio, sono lungi dall’essere stati completamente assimilati e tradotti in italiano dalla nostra prassi ecclesiale; azioni come quelle di una forte e limpida testimonianza, di una decisa e serena evangelizzazione, di una autentica riforma ecclesiale, di un forte slancio di riconciliazione e di comunione, di un nuovo anelito missionario, sono state ben espresse e indicate dal Concilio, ma faticano ancora a diventare i punti di riferimento della nostra vita ecclesiale. Parafrasando una frase della "Christifideles" laici, è venuta l’ora in cui le splendide teorie espresse dal Concilio possano diventare prassi autentica delle nostre Chiese. Con questa intenzione, la Rivista del Clero intende offrire articoli che servano da stimolo e da richiamo perché la memoria non si spenga; ma soprattutto perché, di fronte alle grandi sfide con cui è chiamata a misurarsi la Chiesa italiana (di trasmissione della fede con l’iniziazione cristiana; di presenza tra la gente, con la ristrutturazione delle parrocchie; di annuncio, con l’insistenza su una conversione pastorale verso uno slancio più missionario), essa sappia riferirsi al magistero del Concilio come alla propria bussola, al luogo in cui trovare gli strumenti per costruire la propria immagine e le proprie istituzioni.
Inizia la serie un articolo di Giovanni Rota (prete della diocesi di Bergamo e docente di Ecclesiologia e Mariologia alla Facoltà teologica di Milano) sul «popolo di Dio», categoria che la "Lumen gentium" utilizza per esprimere la questione più radicale affrontata dal Concilio: il difficile rapporto della Chiesa con la storia e con la cultura secolarizzata.
Le immagini con cui oggi si dà figura al Paradiso di fatto non risultano particolarmente attraenti alla sensibilità comune, anche tra i credenti: respingono piuttosto che essere oggetto di desiderio. La riflessione di Carlo Buzzetti (docente di Scienze bibliche alla Università Pontificia Salesiana di Roma) procede da questa «esperienza pastorale imbarazzante» – indice peraltro di una certa riluttanza nei confronti delle ‘cose ultime’ – per operare una ricognizione delle immagini biliche del compimento oltre la morte e la storia. Fatte salve la cautela e la sobrietà con cui questo argomento va affrontato, la vita eterna – sottolinea l’Autore – ha bisogno di essere descritta attraverso una rappresentazione semplice, disponibile, immaginabile, la quale non può non fare riferimento alla nostra attuale esperienza e non essere integrata in una figura globale della vita. A queste condizioni è possibile «restaurare» un’immagine del Paradiso persuasiva e degna di essere desiderata.
L’articolo rievoca la figura, purtroppo poco nota, di Pietro Gazzola, religioso barnabita attivo a Milano nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento. Stefano Gorla (barnabita anch’esso, pubblicista e saggista) ne mette in luce i tratti di indubbia attualità che ancora oggi conserva. Fu infatti «animatore di una comunità cristiana aperta, in ricerca, fautore di una pietà profonda e non devozionalistica. Grazie a una sensibilità tesa a cogliere i segni dei tempi nella cultura contemporanea, da essi si fece interrogare e interrogò attraverso una predicazione evangelica». La cultura connotò la sua missione pastorale, senza forzature o giustapposizioni. Una sensibilità così affinata ci pare permanga caratteristica preziosa ed efficace anche per chi esercita il ministero nel nostro tempo.
«Semplice è la storia, ma profondo è il mistero»: queste parole di sant’Ambrogio bene illustrano il significato del libro di Rut. Un racconto splendido che mostra come il futuro di Dio si fa strada nella storia umana: attraverso la generosa dedizione di una donna straniera che ha accettato le conseguenze anche dolorose di un amore autentico. Non a caso Rut compare nella genealogia di Gesù. L’Autore dell’articolo è monaco benedettino a Dumenza (Varese).
In una società caratterizzata dall’indiscusso primato del consumo, ci sembra che il valore della semplicità vada recuperato, anche ai fini della qualità stessa della vita. La dispersione nelle molte cose da godere e desiderare sta logorando l’umano anche in ciò che custodisce di più prezioso. In queste pagine Dag Tessore (orientalista, studioso di Spiritualità e di Storia della Chiesa) con ampiezza di riferimenti biblici richiama l’attenzione sull’essenziale di Dio e sulle insidie dell’idolatria negli aspetti più ordinari della vita, come il cibo, i vestiti, lo sguardo, la parola. L’invito, al prete come al cristiano comune, è di ritrovare la propria unità interiore attraverso uno stile di vita semplice e sobrio, riportando al primo posto l’Unico che è veramente Dio.
I due interventi che seguono propongono in modo non convenzionale una riflessione sul rapporto fra sacerdoti e laici. Si tratta di spunti maturati a partire dalla lunga esperienza degli Autori (un parroco della diocesi di Milano e una coppia di sposi) nel movimento ecclesiale Incontro Matrimoniale.Tuttavia le pagine che seguono sollevano una questione di interesse più generale, cioè la possibilità di realizzare un maturo stile di collaborazione fra laici e chierici, che trovi un senso più profondo della sola funzionalità o efficacia nella realizzazione di singoli progetti pastorali. L’originalità di questi contributi sta quindi nel prospettare uno stile di valorizzazione reciproca fra ministero, spiritualità e carismi sacerdotale e matrimoniale, in vista di una rinnovata e più incisiva presenza testimoniale della Chiesa. Si tratta di due scritti molto diversi fra loro, più riflessivo il primo, quasi un racconto il secondo. Li affianchiamo poiché pensiamo che queste voci riescano utilmente a proporre il senso di un percorso che cerca di avvicinare due figure che nella Chiesa sono state troppo a lungo separate.