«La nostra bocca vi ha parlato francamente, Corinzi, e il nostro cuore si è tutto aperto per voi. Non siete davvero allo stretto in noi; è nei vostri cuori invece che siete allo stretto […] Rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore!» (2Cor 6, 11-13). A queste parole accalorate di Paolo, poste quasi a conclusione della lettera che accompagna la promulgazione del motu proprio «Summorum pontificum», il papa affida l’intenzione del suo gesto: sciogliere, con un atto ‘esagerato’ di amore, una situazione (lo scisma aperto con i seguaci di mons. Lefebvre) così indurita da sembrare ormai bloccata. E come le parole di Paolo, che pur cariche di affetto suonano anche come un velato giudizio e un rimprovero, così anche il gesto di Benedetto XVI è carico di un’emozione che lo rende pieno di sfaccettature, di prospettive di lettura e di punti di interpretazione. Il clima vivace e movimentato che sta accompagnando la sua recezione ne è buon testimone. La Rivista ha ritenuto suo compito entrare in questo clima, per fornire ai suoi lettori (molti dei quali impegnati in pastorale e desiderosi di capire, di avere indicazioni per l’azione ecclesiale) strumenti per leggere questo gesto del papa, per inserirlo in modo armonico dentro il cammino delle nostre Chiese, per intuire le prospettive che dischiude e le attenzioni richieste al fine di una sua corretta applicazione, per abitare le domande e le questioni che consegna ancora aperte alla vita delle nostre Chiese. Abbiamo così delineato un percorso che consenta ai nostri lettori, in un primo contributo, di cogliere l’intenzione pastorale che anima il gesto del papa, quel bonum ecclesiae e quel bonum animarum che egli stesso indica come motore e obiettivo di questo suo motu proprio. Un secondo articolo si fa carico di fugare i dubbi (infondati, come il papa stesso riporta nella lettera accompagnatoria) che un simile gesto leda l’autorità del Concilio Vaticano II, il suo essere riferimento e norma per la vita delle nostre Chiese. Un terzo studio si confronta con la questione liturgica che sta al centro, al cuore del motu proprio, per mostrare come il tema della actuosa participatio sia un guadagno maturato dalla Chiesa già nel messale di Giovanni XXIII e sviluppato da quello di Paolo VI, che però attende ancora (almeno in parte) di essere recepito e applicato in modo pieno nella pratica liturgica delle nostre comunità. Un contributo finale infine ci propone una rilettura da un punto di vista spirituale di tutto il cammino che il rinnovamento liturgico ha fatto vivere alla Chiesa in questi decenni, collocando dentro questo cammino il gesto del papa, le sfide che apre, la maturazione che domanda alla Chiesa.
Don Saverio Xeres (membro della redazione, docente di Storia della Chiesa nel Seminario di Como e alla Facoltà teologica di Milano) colloca il motu proprio sullo sfondo del complesso processo di recezione del Vaticano II, mettendo a tema l’infondatezza del timore che la disposizione di Benedetto XVI intacchi l’autorità del Concilio. Il Vaticano II è stato interpretato come momento di rottura da due posizioni: da un lato quella del movimento di mons. Lefebvre, che nega qualsiasi legame tra Tradizione e Concilio, dall’altro quella di coloro che separano lettera e spirito del Concilio, ravvisando nel Vaticano II una sorta di nuovo inizio nella storia della Chiesa.Alla base di tali letture, opposte e convergenti, sta una visione erronea della Tradizione ecclesiale: essa, in quanto «trasmissione di un “contenuto” vitale attraverso un organismo vivente, non può in alcun modo essere considerata quale pura conservazione o immobilismo, quanto piuttosto come crescita: non ovviamente come uno sviluppo fine a se stesso, o completamente soggetto alle contingenze o alle opportunità del momento, bensì necessariamente legato a un’identità che permane nel cambiamento».
La logica inesorabile che governa la comunicazione pubblica oggi (soprattutto quella dei giornali e della televisione) ha contrapposto radicalmente il messale di Pio V (ma sarebbe più corretto dire: di Giovanni XXIII) a quello di Paolo VI. È esattamente la raffigurazione respinta da Benedetto XVI quando afferma che nella liturgia cattolica si dà crescita nella continuità, non rottura. In realtà – come mostra il documentato studio storico di don Enrico Mazza (membro della redazione e docente di Storia della liturgia all’Università Cattolica di Milano) – non esiste cesura tra i due messali, ma una logica comune. Entrambi infatti recepiscono i criteri della partecipazione attiva dei fedeli, introdotti dall’ "Instructio de Musica sacra et sacra Liturgia" di Pio XII (1958). Il messale di Paolo VI – avendo alle spalle la Sacrosanctum Concilium, che nella partecipazione attiva aveva un principio ispiratore – ne ha dato uno sviluppo più ampio sotto il profilo dell’impianto rituale. Certo, in questa linea il cammino della riforma liturgica non è ancora compiuto. Ma quest’ultimo argomento, di cruciale importanza anche pastorale, merita un'autonoma e approfondita trattazione, qui necessariamente solo abbozzata.
Queste pagine del priore di Bose sono ricche di risonanze affettive. Enzo Bianchi, infatti, sul messale di Pio V si è formato, è cresciuto nella fede, nell’intelligenza eucaristica e nella vita spirituale. Da quella liturgia è ‘migrato’ verso la liturgia della riforma conciliare, che meglio gli ha consentito di offrire a Dio il proprio culto spirituale con la Chiesa tutta, senza mai pensare che si fosse data rottura tra il messale di Pio V e quello di Paolo VI, bensì crescita e progresso. Questo è stato il percorso di una generazione, anche di preti. In questa consapevolezza si radicano le considerazioni dell’Autore sul motu proprio, sul suo retto uso e sui possibili abusi, sulle questioni aperte della sua recezione, nell’auspicio che il generoso gesto di Benedetto XVI sia raccolto dai tradizionalisti, aiutandoli a deporre durezze contrappositive e a ritrovare la comunione con la Chiesa.
Che l’incertezza sia una delle caratteristiche della nostra società non è solo una convinzione dei sociologi, ma anche un’esperienza di tutti. È difficile ravvisare punti fermi nelle relazioni, quelle famigliari anzitutto, nei riferimenti che ispirano i comportamenti, nel mondo del lavoro (ma potremmo moltiplicare gli esempi, tanto è pervasiva l’incertezza oggi). I giovani, che respirano questo clima, ne restano profondamente segnati, in particolare a livello delle scelte che impegnano definitivamente la libertà e plasmano la loro identità. La ‘specie’ si adatta, «ricorrendo a espedienti che consentono di vivere alla giornata e di andare avanti “come se” tutto continuasse a funzionare sempre bene». L’articolo di Antonio Bellingreri (docente di Pedagogia all’Università di Palermo) indaga sui diversi profili che l’incertezza assume nella società ‘liquida’ e sull’impatto rovinoso che essa ha nel rapporto educativo. Ma accompagnare un giovane nella crescita verso la vita adulta è ancor oggi un compito praticabile, sia pure molto esigente. L’Autore ravvisa nell’empatia uno stile di relazione proficuo, capace di attivare un processo verso quel «forte sentire etico che può portare la persona ad acquisire la capacità di impegnarsi anche in scelte percepite come “irrevocabili”».
L’articolo di don Guido Benzi (biblista della diocesi di Rimini) è il primo di una serie dedicata alle parabole e, in modo esemplificativo, al cap.13 del vangelo di Matteo. In queste pagine l’Autore propone alcune questioni introduttive. Dopo aver messo in risalto che la parabola consente al destinatario di accedere a un enigma che lo interpella e trasforma, don Benzi illustra il rapporto tra parabola e vita di Gesù, la ‘stranezza’ del linguaggio parabolico e la rilettura operata dalla comunità primitiva. Tali questioni «manifestano anche un sano “disagio” nei confronti delle parabole in quanto meglio specificano ma non risolvono appieno quella dimensione di mistero che esse portano». Le parabole si rivelano così un modo molto adatto a esprimere l’eccedenza, la novità e l’originalità del Dio di Gesù Cristo.