Don Armando Matteo, assistente nazionale della FUCI, dopo aver illustrato
l’urgenza e la gravità dell’annuncio della fede alla prima generazione
incredula dell’Occidente (cfr. 2/2009, pp. 116-126), affronta
qui il nocciolo pastorale del problema, interrogandosi sulle
condizioni a partire da cui è possibile intessere un significativo rapporto
con i giovani. L’analisi è condotta con grande franchezza, indicando,
da un lato, la necessità di operare scelte pastorali coraggiose,
veri e propri investimenti su questa priorità, e, dall’altro,
riconoscendo le specifiche e rilevanti debolezze antropologiche che
caratterizzano le nuove generazioni. L’obbiettivo richiede opportuni
e inediti contesti pastorali, che l’Autore abbozza, affermando suggestivamente
che «la comunità dei credenti potrebbe oggi proporsi
innanzitutto quale scuola della libertà, quale luogo in cui soprattutto
i giovani – i grandi analfabeti della libertà – possano venire generati
a tale esperienza e in questo avviati alla possibilità di una decisione
per la fede».
Si conclude con questo terzo contributo il lavoro dedicato da don
Saverio Xeres, membro della redazione e docente di Storia della
Chiesa alla Facoltà teologica di Milano, al ‘silenzio’ di Pio XII sulla
Shoah. Lo studio del tema si conclude proponendosi anzitutto di rispettare
il rigore della ricerca storiografica, badando a non sovrapporre
e a non confondere i piani dell’interrogazione. Le risposte alle
tre domande che strutturano il lavoro: «Il papa era informato dei fatti?
Il papa ha denunciato apertamente lo sterminio in atto? Perché ha
scelto di tacere?» portano a concludere che il silenzio di Pio XII sulla
questione ebraica risulta «un innegabile dato di fatto. Meglio: una
decisione assunta liberamente e motivatamente. Se così è, non c’è
che da prenderne atto, e con un atteggiamento di sincero rispetto,
tanto più quanto si è potuto almeno intravedere l’estrema complessità
della contestuale situazione storica nella quale è maturata una simile,
sofferta, decisione».
Il breve saggio che qui presentiamo si propone di riprendere la dialettica
paolina fede-opere secondo i nuovi significati che ha assunto
nel quadro del pensiero moderno. Infatti, negli ultimi secoli, la fede
stessa è stata posta in discussione dalla modernità e quasi contrapposta
alla razionalità, così come il significato di ‘opera’ si è dilatato
faustianamente in senso fortemente irreligioso. In un contesto così
avverso – sostiene don Gianni Colzani (docente alla Pontificia Università
Urbaniana di Roma) – è comunque possibile recuperare il
profondo significato cristiano di queste due categorie, aprendo uno
spazio di impegno e di dialogo a tutto campo: sfida per una Chiesa
adulta, a vocazione mondiale.
Già nel 2003 i dati dei rapporti Unicef rilevavano oltre 145 milioni
di minori out of family care nel mondo. Nella stessa Italia si registra
una forte sproporzione fra capacità di accoglienza e minori in situazione
di deprivazione famigliare. Riflettere su questo tema è
quindi importante e urgente, significa insieme prendere atto di
un’emergenza sociale e di un appello all’evangelico farsi prossimo.
Abbiamo chiesto di presentare questa problematica a don Maurizio
Chiodi, presbitero della diocesi di Bergamo, docente di Teologia
morale presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, nonché
consigliere spirituale dell’Associazione ecclesiale La Pietra scartata
(composta da famiglie adottive e affidatarie), e a Gianmario Fogliazza,
da anni attivo nell’associazionismo familiare. Il loro intervento
viene pubblicato in due riprese, la prima dedicata alla presentazione
del contesto culturale-legislativo ed ecclesiale che dà
oggi forma all’esperienza adottiva, la seconda centrata sul profilo
antropologico, teologico e pastorale.
Il recente viaggio di Benedetto XVI in Africa ha mostrato ancora una
volta quanto sia problematico il rapporto tra media e predicazione
cristiana. L’attenzione dei giornali e delle televisioni, salvo qualche
eccezione, è stata completamente assorbita dalla frase detta dal Papa
in aereo contro l’idea che si possa superare il flagello dell’Aids
con la distribuzione di preservativi. Ciò a scapito dell’ampiezza della
predicazione di Benedetto XVI, con particolare riferimento ai temi
della giustizia e della pace su cui l’Occidente ricco è indisponibile
all’ascolto. Ma i media hanno le loro leggi ferree. Su di essi
pertanto non bisogna fare affidamento quali veicoli del messaggio
cristiano. Nei loro confronti – suggerisce in questa puntigliosa ricostruzione
del caso Luigi Accattoli (per molti anni ‘vaticanista’ del
«Corriere della Sera»; si veda ora il suo sito www.luigiaccattoli.it) –
occorre essere insieme candidi e astuti.
Don Giuseppe Grampa, già docente di filosofia all’Università di Padova
e ora parroco a Milano, alla richiesta di parlarci di un testo importante
per la sua esperienza ministeriale, ha scelto di presentare il
Testamento di frère Christian, monaco e martire nella terra algerina.
Il testo, di grande levatura spirituale, viene valorizzato soprattutto
quale espressione di un modo profondamente ecumenico di vivere
sia l’appartenenza alla Chiesa sia il dialogo e il servizio verso culture
e religioni comunemente ritenute ‘ostili’. I monaci di Tibhirine, mostra
don Grampa, esprimono in forma estrema l’anima di quel dialogo
interreligioso che, come afferma Benedetto XVI, è «necessità vitale,
da cui dipende in gran parte il nostro futuro».
Il 22 marzo al Museo Diocesano, in occasione del festival Soul, i filosofi Hunyadi e Benasayag rifletteranno sulla fiducia nell’altro nell'era digitale.
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