Come la parrocchia può realisticamente corrispondere ai ricorrenti
pronunciamenti magisteriali che la invitano a porsi in ‘stato di missione’?
Questo è l’interrogativo che guida il saggio di don Gianni
Colzani, ordinario di Missiologia presso la Pontificia Università Urbaniana
di Roma. La risposta non può che essere articolata e prende
le mosse da una visione di parrocchia come «forma originaria di
comunità cristiana […] l’espressione elementare della comunione di
fede dei credenti», luogo in cui la cura pastorale si manifesta come
servizio alla vita cristiana e che sperimenta come propria la tensione
missionaria, intesa anzitutto come sforzo di far nascere la fede
laddove non c’è. La riflessione suggerisce che un’autentica dinamica
missionaria non possa prescindere dal ricentrare teologicamente
l’annuncio sul nucleo del ‘vangelo del Regno’, dall’avere una nuova
attenzione antropologico-ministeriale alla comunicazione e, infine,
dal ripensare la centralità della missione nella vita della Chiesa e nella
storia del mondo: «La missione è testimonianza di un incontro e
di un dono che riempie la vita e chiede-esige di essere testimoniato.
La missione risale all’aprirsi dell’amore divino verso l’umanità: il
Padre è il primo missionario, e all’interno della sua universale azione
si colloca il ministero ecclesiale».
Viene qui riprodotto l’ultimo capitolo del libro di Michel de Certeau
(1925-1986), Lo straniero o l’unione nella differenza (pref. di P. Sequeri,
Vita e Pensiero 2010). L’opera del grande gesuita francese, originariamente
pubblicata più di quarant’anni fa, non mostra i segni del
tempo.Al contrario, in un’epoca di identità autoreferenziali, e perciò
stesso sterili e conflittuali, l’insegnamento di de Certeau risuona singolarmente
attuale, sotto il duplice, indisgiungibile profilo antropologico
e religioso. Il Dio cristiano si mostra come uno ‘straniero’, un
altro che, al modo di un ladro, irrompe destabilizzando la logorata
consuetudine a cui la religione praticata dagli uomini l’aveva confinato.
Ma è proprio così che avviene l’inaspettato incontro con la
presenza di Dio: «Una verità interiore appare solo con l’irruzione di
un altro. Perchè si desti e si riveli, occorre sempre l’indiscrezione
dello straniero o l’urto di una sorpresa. Bisogna essere sorpresi per
diventare veri».
La cronaca ricorda quotidianamente che la presenza islamica rappresenta
ancora un corpo estraneo nel tessuto culturale italiano. La sua
‘diversità’ provoca anche la pastorale, soprattutto laddove l’immigrazione
ha raggiunto dimensioni notevoli, e interroga le comunità sulle
modalità di una saggia accoglienza. Il contributo di don Alberto Carrara,
parroco e delegato vescovile per la cultura e gli strumenti di comunicazione
sociale nella diocesi di Bergamo, propone una riflessione
suscitata dagli interrogativi che nascono dalla quotidiana esperienza
pastorale, tentando un loro chiarimento a partire dalle diverse matrici
‘teologiche’ delle due religioni. La tesi icastica proposta da don Carrara
– fra Cristianesimo e Islam «la cosa più importante che può succedere
è che non succeda nulla» – può apparire eccessiva e non
essere condivisa. È il motivo per cui ospitiamo su questo stesso numero
una voce diversa. Questa posizione – precisa l’Autore – trova
tuttavia un suo necessario completamento in una pastorale del ‘buon
samaritano’: la parrocchia, infatti «può fare molto con gli islamici in
quegli ambiti nei quali la sua identità cristiana è veicolata dai gesti concreti
della vicinanza e non da quelli della propria identità religiosa».
Le riflessioni che seguono offrono un secondo punto di vista sulla
complessa questione pastorale del rapporto con l’Islam. Nascono infatti
a margine del precedente contributo di don Alberto Carrara, col
quale intrattengono un rapporto di cordiale dialettica. Ne è autore
don Massimo Rizzi, direttore del Segretariato Migranti della diocesi
di Bergamo, che si propone di sviluppare il dibattito stemperando alcuni
luoghi comuni, quale, ad esempio, il ‘monolitismo’ del pensiero
islamico. L’autore sottolinea infatti come si incontri sempre più frequentemente
un mondo musulmano aperto alle differenze, nel quale
in modo graduale si fa avanti l’esigenza di un rapporto più complesso
nell’interpretazione della scrittura coranica e una visione più sfumata
della ‘lontananza’ di Dio. L’articolo si chiude con un invito a fare
attenzione a quanto concretamente avviene sul territorio italiano.
Se infatti «non è cambiato il dialogo islamo-cristiano nei suoi fondamenti,
è piuttosto la situazione attuale, il mondo in cui questo dialogo
avviene, a essere radicalmente mutata». La situazione di minoranza
delle comunità islamiche risulta in tal senso essere elemento
decisivo nel favorire una diversa rielaborazione dell’identità religiosa.
Presentiamo qui la prima parte dell’interessante contributo di don
Angelo Manfredi, presbitero della diocesi di Lodi e docente di storia
della Chiesa, autore di una voluminosa ed esemplare biografia del
beato Guido Maria Conforti1. Il saggio si occupa di presentare in sintesi
la complessa figura del fondatore dei Saveriani, nonché vescovo
di Parma, descrivendo le tensioni che ne hanno accompagnato l’esistenza
e lo stesso ministero episcopale, vissuto fra vocazione ‘diocesana’
e ‘missionaria’, direzioni particolarmente difficili da sintetizzare
in una temperie ecclesiale ove ancora si intendeva univocamente la
missione come rivolta ad gentes. Sul prossimo numero la riflessione
continuerà analizzando la complessa e, per alcuni aspetti, eroica
opera pastorale del Conforti, soprattutto del suo ministero nella
diocesi di Parma.
Mons. Sandro Panizzolo, presbitero della diocesi di Padova, dove per
dieci anni è stato Rettore del Seminario maggiore, analizza in questo
contributo sogni, energie, elementi problematici che caratterizzano
il vissuto di chi oggi si prepara al ministero presbiterale. Affinché
l’itinerario di accompagnamento al sacerdozio possa incidere in
profondità e favorire l’elaborazione di una scelta vocazionale consistente,
occorre anzitutto procedere da un realistico aggiornamento
della figura dei ‘nuovi’ seminaristi, per poi concentrarsi sulle attenzioni
pedagogiche da dispiegare. Gli educatori sono chiamati ad
«ascoltare attentamente i giovani che entrano in seminario, a farsi
loro compagni di viaggio, a valorizzare il ‘vino buono’ che portano
nelle loro anfore», condizione necessaria perché si possa attivare
un processo di maturazione che coinvolga tutti gli ambiti della persona:
volontà, affetti, ragione.
1° dicembre presentazione in anteprima del primo volume della collana "Credito Cooperativo. Innovazione, identità, tradizione" a cura di Elena Beccalli.