Pubblichiamo in queste pagine la relazione che p. Pietro Bovati S.J. (ordinario di Teologia ed Esegesi dell’Antico Testamento presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma) ha tenuto lo scorso marzo presso l’Università Cattolica di Milano in occasione della Giornata di studio su Che cosa è successo nel Vaticano II. Il titolo allude a un’immagine
– il ‘grande codice’ – coniata da un famoso critico letterario a proposito della Bibbia, riconosciuta quale vera e propria ossatura della cultura occidentale in termini di simboli, categorie di pensiero e forme di rappresentazione. Si può dire altrettanto del modo in cui
la Chiesa vive, sente e pensa a se stessa e alla propria missione dopo il Vaticano II? È stato infatti il Concilio a riproporre con forza e nitore la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa, in particolare attraverso la costituzione Dei Verbum. Certo, resistenze e timori ci sono stati e ci sono, ma il Concilio ha avviato un processo
ricco di effetti benefici. P. Bovati si sofferma su questa positività sottolineando, quali significative istanze del Concilio, la natura dinamica della Parola di Dio, la sua qualità profetica e la sua capacità di generare sapienza in chi l’ascolta con disponibilità. L’articolo rileva poi, tra le diverse cose che restano da perseguire perché la Scrittura sia
compiutamente il grande codice della Chiesa, la necessità da parte dei biblisti di sviluppare maggiormente un’interpretazione credente della Bibbia e, da parte dei teologi e dei catechisti, una più cordiale aderenza alla forma di pensiero della Parola di Dio.
Che il rapporto tra Chiesa e media non sia pacifico lo dimostrano diverse note vicende di questi ultimi mesi. La comunicazione pubblica nella nostra società ipermediatica ha le sue regole ferree, inospitali per un messaggio come quello cristiano. Come potrebbe essere diversamente, se essa ha come obbiettivo ultimo l’audience e non la verità? Quindi non ci si deve rallegrare troppo quando la Chiesa ‘fa notizia’ in televisione o sulle pagine dei giornali: si tratta di una presenza da non sopravvalutare. Questa sana diffidenza non deve tuttavia generare estraneazione. I media sono infatti parte preponderante della cultura diffusa di questo tempo. Occorre abitarla con consapevolezza critica e cognizione dei meccanismi che governano la comunicazione di massa. In questa direzione va il testo di Chiara Giaccardi (docente ordinario di Sociologia e antropologia dei media all’Università Cattolica di Milano) che, dopo aver evidenziato limiti e ambiguità dei modi di comunicare la Chiesa da parte dei media oggi,
auspica l’assunzione di uno stile ispirato ad autentica parresia.
In queste pagine mons. Giovanni Giudici, vescovo di Pavia, propone un’ampia meditazione sul senso del ministero diaconale oggi, attenta a cogliere le modalità peculiari e le forme concrete del suo esercizio. La considerazione della quotidianità pastorale offre indicazioni preziose per comprendere una figura ministeriale la cui recente valorizzazione è ancora priva di una forma pastorale ben identificabile.
I grandi riferimenti al servizio e all’Eucaristia vengono qui precisati in relazione a temi di grande urgenza, quali il lavoro e l’immigrazione, dove il diacono, «vivendo alla maniera dei laici e collaborando con loro nel quotidiano, ricorda al popolo di Dio la vocazione della Chiesa al servizio dell’umanità».
In questa seconda parte del suo contributo Luca Diotallevi (docente di Sociologia all’Università di Roma Tre) delinea anzitutto il quadro socioreligioso che il cattolicesimo italiano ha ricevuto in eredità dal secolo scorso, caratterizzato da una buona qualità istituzionale, da un laicato corresponsabile e da un significativo radicamento popolare. Ciò consente di affrontare con buone risorse la crisi e la transizione che stiamo vivendo, che toccano anche la figura del prete. Essa è esposta, rileva l’Autore, a due processi di degenerazione: l’inseguimento della domanda religiosa e l’accomodamento in un profilo impiegatizio del ministero. Per contrastare queste due derive Diotallevi propone di coltivare con cura cinque luoghi critici: il sapere teologico, lo spessore umano,
l’appartenenza al presbiterio, l’esercizio dell’autorità, il rifiuto del clericalismo.
Completiamo qui la pubblicazione dell’interessante saggio di Luciano Manicardi, monaco della comunità ecumenica di Bose. Dopo aver analizzato la dimensione sociale dell’invidia, il saggio riporta testimonianze letterarie, filosofiche, teologiche e storico-artistiche, proponendo una ricca fenomenologia dell’invidia. L’approccio descrittivo
lascia il posto, nella parte finale, all’interrogativo su come porre rimedio alla potenza di questo sentimento. Dopo aver evidenziato un risvolto potenzialmente ‘costruttivo’ dell’invidia («nell’invidia possiamo cogliere l’aspetto di insofferenza verso i propri limiti. Se questa insofferenza diventa spinta al loro superamento, dunque lavoro su di sé, può mostrarsi come elemento positivo»), l’Autore suggerisce alcuni consigli spirituali – esercitarsi nell’alterità, accettare se stessi, elaborare i propri lutti – per far fronte agli aspetti più dirompenti di questo potente sentimento dell’uomo.