L’articolo di mons. Alphonse Borras, docente all’Università Cattolica
di Lovanio, riproduce una sua relazione tenuta al clero milanese nel
gennaio scorso. L’Autore, dopo aver delineato i tratti salienti della
cultura in cui oggi si situa la missione della Chiesa, illustra i motivi
per cui la parrocchia ha un posto privilegiato nella vita ecclesiale, di
cui evidentemente non è il tutto. L’originale importanza della parrocchia
sta nel suo offrire l’essenziale per diventare cristiani e fare
Chiesa in un luogo preciso. In particolare, la parrocchia esiste per
«tutti quelli che arrivano», per tutti coloro che sono interessati al
Vangelo. Questo spazio di ospitalità la costituisce come casa per
chiunque, che garantisce l’accesso all’esperienza di Gesù Cristo senza
condizioni o preclusioni. In tal senso l’accoglienza costituisce un
tratto insostituibile per le comunità parrocchiali, lo stile che conferisce
vitalità ai molti modi e percorsi che sostanziano la vita pastorale.
C’è un intimo legame fra l’esperienza della fede matura e la pratica
della carità e della giustizia: lo ricorda Benedetto XVI in "Porta
fidei" 14 richiamando alcuni passi neotestamentari. Lo studio di don
Massimiliano Scandroglio, docente di Esegesi presso il Seminario di
Venegono (MI), interroga a proposito di questo legame la testimonianza
profetica di Amos, raccogliendo utili indicazioni per ridare forma
al cammino di sequela, come singoli e come Chiesa. L’esperienza
di Amos infatti conferma che non esiste esperienza genuina di Dio
che non si traduca in un comportamento coerente. Il profeta di
Tekòa interpreta infatti il proprio attivo coinvolgimento nella lotta
contro l’ingiustizia sociale del suo tempo come diretta conseguenza
della propria vocazione, della propria singolare ‘visione’ di Dio: «Non
è il confronto con uno sterile codice legislativo a fornire ad Amos
la strumentazione concettuale e linguistica per plasmare la propria
opera di denuncia, bensì la conoscenza dello stile di Dio e – conseguentemente
– della vocazione di Israele a essere “figlio”».
La drammatica realtà del sovraffollamento delle carceri italiane rappresenta
una vera emergenza umanitaria e chiede a gran voce una
pronta soluzione. C’è tuttavia un secondo e più profondo livello del
problema: «Esistono gli uomini malvagi ma quelli infelici sono in numero
molto maggiore: sono questi ultimi a sovraffollare il carcere e
a gridare la voglia di essere ri-educati». Don Marco Pozza, giovane
sacerdote della diocesi di Padova, si propone con questa rifl essione
di favorire nel lettore uno sguardo positivo, che permetta di comprendere
quanto di straordinario può accadere nel chiuso di una
cella, ove il trauma della detenzione diviene occasione di uno scavo
in profondità e di riprogettazione dell’esistenza. Cambiamento che
in qualche misura interpella le comunità cristiane, poiché il detenuto,
dopo l’espiazione della pena, necessita di un contesto accogliente;
infatti, «laddove un uomo o una donna una volta usciti non troveranno
una porta aperta o una mano tesa, non rimarrà loro altra chance
che ribattere le vecchie strade». Offrire motivi di speranza a chi è
a corto di alternative: potrebbe essere questo il vero aiuto che una
parrocchia offre al mondo sommerso del carcere.
Pubblichiamo con piacere la meditazione sulla fede del presbitero di
S.E. mons. Renato Corti, vescovo emerito della diocesi di Novara. Il
tema, di grande attualità pastorale, viene affrontato a partire da alcune
significative suggestioni neotestamentarie che permettono di
enucleare modelli di fede capaci di resistere nelle avversità. Si parla
di situazioni di fede nella prova, vicine all’esperienza attuale del presbitero
che si trova oggi ad affrontare vecchie e nuove ‘tentazioni’.
Questo il motivo per cui la riflessione dedica ampio spazio ad alcune
indicazioni più concrete, che vorrebbero essere altrettanti consigli
fraterni per aiutare la fede a mantenersi salda, propiziando uno
stile ministeriale che sia realmente, come auspicato dal Concilio
Vaticano II, l’ambito della ricerca della santità del prete.
Don Alberto Carrara, parroco, ora delegato vescovile per la cultura
e gli strumenti di comunicazione sociale nella diocesi di Bergamo,
presenta qui una sapida rilettura di un classico della letteratura moderna,
"Il Negro del Narciso" di J. Conrad. L’Autore cerca di far emergere
la metafora della ‘barca’, centrale nel romanzo e simbolo dei nostri
quotidiani contesti vitali, ambiti nei quali condividiamo l’avventurosa
traversata della vita. La scrittura di Conrad favorisce questo scavo;
essa infatti si propone, come è scritto nella prefazione di questo romanzo,
«di farvi ascoltare, di farvi sentire... ma prima di tutto di farvi
vedere. […] anche quello scorcio di verità che avete dimenticato
di chiedere». In quest’ottica, la nave diventa un «piccolo pianeta»,
e la letteratura una lente potente, acuto strumento di indagine e
svelamento delle relazioni, delle sue dinamiche complesse e a volte
perverse. L’articolo mostra l’efficacia dello strumento letterario nel
favorire quella consapevolezza delle dinamiche relazionali, oggi sempre
più indispensabile all’azione pastorale.
1° dicembre presentazione in anteprima del primo volume della collana "Credito Cooperativo. Innovazione, identità, tradizione" a cura di Elena Beccalli.