Presentiamo qui gran parte della relazione che François Cassingena-Trévedy (monaco dell’abbazia benedettina di Saint-Martin de Ligugé e docente di liturgia presso l’Institut Catholique di Parigi) ha tenuto nel maggio scorso al XII Convegno Liturgico Internazionale su ‘Liturgia e cosmo’, presso il monastero di Bose. Il saggio analizza la profonda relazione della liturgia cristiana con il creato, con quanto eccede gli spazi fisici, solitamente ‘chiusi’, della celebrazione: dalle origini essa non è né sorda né cieca rispetto a quanto accade, vive, respira o semplicemente esiste al di fuori dell’ambito delimitato in cui si svolge. Con le sue liturgie nutrite dalla parola biblica e dalla tradizione antica, la comunità cristiana chiama in chiesa il mondo creato, convocandolo quasi come ‘concelebrante’, illustre ‘parrocchiano’. Quanto avviene in chiesa, dunque, non allontana dal mondo naturale, non isola da esso, ma prende «a piene mani l’aria, la terra, il cielo e il mare», abbraccia, «con tutta l’estensione della nostra corporeità, contrassegnata dal segno cosmico e salvifico della croce, il fuori in tutta la sua grandezza e bellezza». Anzi, la liturgia aiuta a guardare alla creazione con uno sguardo che la bonifica, la protegge, la consola di tutti i maltrattamenti, nella misura in cui sospende e vieta ogni impossessamento violento, ogni sfruttamento cieco, per sostituirvi il senso e il gesto del ‘prendere il cibo’ nell’azione di grazie.
"Un concilio che non sia recepito è un concilio che rimane senza effetto". Questa lapidaria affermazione di Y. Congar fa intuire il carattere strategico di un’adeguata riflessione sulla ricezione del Concilio Vaticano II a 50 anni dalla sua celebrazione. È quanto propone in queste pagine il prof. Gilles Routhier, docente alla facoltà di teologia dell’Università Laval, Québec, fondando le sue considerazioni su un metodo che privilegia l’attenzione alle pratiche, e considerando come gli insegnamenti del Concilio hanno trasformato le relazioni: anzitutto all’interno delle diverse componenti della Chiesa, quindi tra cattolici e non-cattolici (credenti di altre religioni, non credenti ed atei), infi ne tra Chiesa, ‘mondo’ e Stato. Non appare infatti sufficiente riferirsi ai discorsi, e nemmeno alle istituzioni create per dar seguito ai principi affermati e creare nuove pratiche: "Le istituzioni e le pratiche da sole non sono garanti di una vera conversione che si esprima anche attraverso attitudini di ascolto, di rispetto dei diversi punti di vista, ecc. Insomma, essa si esprime anche attraverso uno stile che testimonia una mentalità convertita o un novus habitus mentis". Prestare attenzione allo stile relazionale promosso dal Concilio, fondato sull’agire di Dio nei confronti dell’umanità, "che si rivolge agli uomini come ad amici e che conversa con loro", offre un modello all’azione della Chiesa; anche le conversioni di atteggiamenti, di pratiche e di mentalità richieste dal Concilio Vaticano II dovrebbero avere un tale radicamento e basarsi su fondamenti spirituali solidi, pena una ricezione insufficiente perché solo formale.
L’articolo di Roberto Volpi, statistico e scrittore, riassume la tesi fondamentale di un libro che, con l’identico titolo, verrà pubblicato nel prossimo mese di settembre dall’editrice Vita e Pensiero. La famiglia oggi non gode di buona salute. Ha assunto molte forme (estesa, ricostituita, allargata, di fatto, unipersonale, convivente, non convivente…), ma soprattutto, al di là dei discorsi retorici, sembra caratterizzata da una perdita di prestigio e attrattiva che si misura in numeri di matrimoni e di fi gli mai così bassi nella storia d’Italia. Le cause di questo scivolamento, peraltro condiviso con gli altri Paesi occidentali, sono tante, ma il vero punto della frantumazione della famiglia come la conosciamo, della sua polverizzazione verso forme sempre meno impegnative e sempre più contingenti e provvisorie, è culturale, più che statistico o normativo, e trova la sua origine nella transizione in atto nell’Occidente post-moderno da un tipo di società i cui assetti economico-produttivi necessitavano di una forte famiglia di tipo tradizionale a una società che cerca invece nell’individuo la sua forma base. Un individuo che non si fa problemi a essere tale, ma che anzi rivendica i caratteri, i vantaggi, e perfino la superiorità della sua condizione. Un individuo che non sostituisce però la famiglia, ma se ne serve ibridandola, infiltrandola, cambiandola. Se è impensabile invertire la tendenza, è però importante vedere lucidamente gli scenari che essa apre per il futuro. La domanda è: terranno le società e i Paesi occidentali se continuerà lo scivolamento verso forme di famiglia a sempre più bassa responsabilità individuale e di coppia, se i tassi di fecondità e di nascite rimarranno drammaticamente lontani dalla soglia di sostituzione delle generazioni? Famiglia e società sono ben più saldamente intrecciate di quanto oggi si tende a pensare. La sfida è aperta. La Chiesa si accinge a raccoglierla nell’imminente Sinodo dei vescovi dedicato, appunto, alle «Sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione».
Quali sono oggi le cause della grande precarietà delle scelte di vita, come il matrimonio, il sacerdozio o la vita religiosa? Da questa domanda muoveva l’articolo di don Aristide Fumagalli apparso sul numero di aprile («La formazione fragile»). Esso ha sucitato una ripresa del tema da parte di G. Gillini e M.T. Zattoni (5/2013, pp. 383-400) e ora del teologo moralista milanese mons. Giuseppe Angelini. La rifl essione proposta in queste pagine si sofferma in particolare sulla tendenziale assenza del profilo morale nell’educazione, indispensabile nella formazione di una persona davvero capace di volere, cioè di disporre di sé attraverso scelte concrete. Se questo oggi avviene sempre di meno è perché sono venute meno quelle forme di vita condivise, nella famiglia e nella società, che attraverso l’ethos comune mediavano i significati essenziali del vivere. «Per educare un figlio ci vuole un villaggio», ha recentemente ed efficacemente affermato papa Francesco.
Questa appassionata nota di don Pozza, cappellano del carcere di massima sicurezza ‘Due Palazzi’ a Padova, richiama un aspetto significativo di quell’attenzione privilegiata che papa Francesco sta mostrando per le ‘periferie esistenziali’: il mondo delle carceri. Esso si trova di fatto ai margini della vita sociale e della considerazione nelle nostre comunità. Il comportamento e le parole di Francesco invitano piuttosto a farsi prossimi a questo universo così difficile, per suscitare in coloro che vi consumano i propri giorni la speranza di una nuova vita: «Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore».
Pubblicata la tesi di Caoduro, sul ruolo della diplomazia sportiva tra Stati Uniti e Cina, vincitrice della sezione Vita e Pensiero del Premio Gemelli.