Una riflessione sui doveri politici del cittadino, firmato dal sacerdote e politico siciliano Luigi Sturzo, e ampi stralci di un articolo sul canto della messa del celebre cantautore milanese Roberto Vecchioni. Sono i “Reprint” proposti nel quinto fascicolo del bimestrale culturale dell’Università Cattolica. Anche questo numero raccoglie diversi contributi, tutti ricchi di spunti e riflessioni interessanti. Come l’intervento del sociologo polacco Zygmunt Bauman, che nella sua analisi invoca un nuovo spirito creativo e “generativo” per non arretrare più nello stato di ingiustizia e infelicità che sta segnando la contemporaneità. Silvano Zucal, curatore dell’Opera Omniadi Romano Guardini, offre una rilettura degli scritti europeistici dopo la Seconda guerra mondiale del grande teologo italo-tedesco. Da parte sua Mounir Khairallah, vescovo maronita di Batroun, nel nord del Libano, si sofferma sul futuro a tinte fosche dei cristiani in Medio Oriente.La sezione “Incontri” ospita un’intervista ad Álvaro Siza, uno dei più grandi architetti viventi. Di particolare attualità le questioni affrontate da due importanti intellettuali della scena culturale contemporanea:il tema del maschile/femminile secondo le Scritture, affrontato da Anne-Marie Pelletier, vincitrice del premio Ratzinger 2014,e quello della plausibilità o meno di costruire una società che non si riferisca più alla “natura di sé”, approfondito dalla sociologa e scrittrice Dominique Schnapper. Molti altri ancora gli argomenti ripresi nelle “polemiche culturali”: dall’utilità dei test di valutazione a scuola all’importanza dei vaccini, dalla ludopatia alla perdita di competenze linguistiche. Infine, una fotografia sullo stato di crisi del mercato discografico nazionale scattato dalla famosa produttrice discografica Mara Maionchi.
Originariamente comparso su «Vita e Pensiero», nel fascicolo del marzo 1947, riproponiamo qui un articolo pubblicato dal sacerdote e politico siciliano, fondatore del Partito Popolare Italiano nel 1919.
Riproponiamo qui ampi stralci di un articolo originariamente comparso su «Vita e Pensiero», nel fascicolo di marzo-aprile 1975, pubblicato dal celebre cantautore milanese, all’epoca dello scritto giovane studioso di discipline storico-letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Anche il voto europeo del maggio scorso ha mostrato come infelicità e ingiustizia stiano segnando la contemporaneità. Per non arretrare può aiutarci un nuovo spirito creativo e “generativo”, che combina solidarietà comunitaria e affermazione individuale.
Già in altre occasioni e altri testi abbiamo avuto modo di affrontare la questione del “sé” in quanto tale e della sua “produzione” in quanto tale, concentrandoci sugli aspetti che tutti i “sé” e tutti i motivi della loro produzione hanno in comune. Soltanto raramente abbiamo menzionato le loro differenze. Ma le personalità si manifestano in molte forme e colori e così fanno anche gli ambienti, gli strumenti e i processi attraverso i quali si producono. Mi sia ora concesso di provare a passare in rassegna, per quanto brevemente, questo altro lato del fenomeno, non volontariamente ma nemmeno senza effetti trascurato; altro lato che abbiamo provato a esaminare e ricostruire in tutti i suoi aspetti.
Va sempre più di moda il “discorso apocalittico”; in realtà, stiamo vivendo un momento di cambiamento come è avvenuto in altre epoche storiche. Ma è possibile uscire dall’impasse. Il ruolo del cristianesimo: non più della potenza, bensì della protesta.
Sono infastidito quando si parla di crisi. Sono infastidito dai discorsi apocalittici del tipo: «Il cielo ci cade sulla testa. Tutto è perduto. Non ci sono più genitori, più figli eccetera». Perché? Semplicemente perché questi discorsi si fanno da migliaia di anni. Rileggete le satire di Giovenale, nato nel 65 d.C. Si lamenta dell’assenza di trasmissione educativa, della mancanza di autorità, del carattere ribelle dei fi gli e dello stato di decadimento della società. Cercando prima di lui si troverebbero discorsi dello stesso tipo. Il discorso apocalittico, il discorso del disastro, non è solo snervante: è falso. Non viviamo un disastro, bensì una mutazione.
Gli scritti europeistici del grande teologo dopo la Seconda guerra mondiale ridefiniscono il ruolo del Vecchio Continente. La necessità di superare il conflitto fra i Paesi del Nord e quelli del Sud e, contro Heidegger, il recupero del ruolo del cristianesimo.
I numerosi saggi europeistici di Romano Guardini restituiscono non solo la potenza dell’argomentare del fi losofo italo-tedesco, ma anche un clima aurorale, una “genesi” del “fatto-Europa”. Elemento su cui merita ritornare soprattutto nel contesto odierno in cui l’Europa vive una particolare crisi d’identità. Parto sofferto, quello europeo: drammatico, non scontato, esito di confl itti, di inquietudine e di tormenti sia biografi ci sia nazionali.
Dopo il fallimento della “primavera araba” e l’apparizione dello Stato Islamico in Iraq e Siria, i cristiani finiscono per pagare il prezzo più caro nella lotta di interessi delle potenze internazionali e regionali; e la loro stessa presenza è in pericolo.
La difficile situazione dei cristiani in Medio Oriente torna in prima pagina, soprattutto dopo il fallimento della cosiddetta “primavera araba”, l’apparizione in forza di al-Qaeda e dello Stato Islamico in Iraq e Siria (Isis, oggi Is) e la persecuzione dei cristiani in Iraq. I pochi titoli pubblicati negli ultimi mesi la dicono lunga sulla tragedia vissuta dai cristiani in Medio Oriente.
Un autentico “conflitto di interessi” s’è determinato in Eurolandia tra la potenza tedesca e l’area mediterranea. Così i mercati russi, cinesi e indiani assorbono ormai quasi il 50% di un export che ha portato in attivo la bilancia commerciale sulla Germania.
Il gelido vento della recessione economica s’è abbattuto sull’intera Eurolandia, e da qualche mese, complice la guerra civile esplosa in Ucraina, anche la “locomotiva tedesca” va perdendo colpi. Un po’ ovunque le statistiche fotografano stagnazione o addirittura regresso del Pil (Prodotto interno lordo), indice universalmente riconosciuto della capacità di “creare ricchezza”, che in estrema sintesi valuta produzione, occupazione, investimenti, consumi. Sino a spingere il presidente francese François Hollande a una dolorosa ammissione: «L’Europa è minacciata da una lunga stagnazione che impone di reagire al più presto».
La riforma che il governo sta approntando può rappresentare un punto di ripartenza perché la cultura della sussidiarietà e del servizio al bene comune si rimettano in circolo. Rinfrancando un corpo sociale esausto e portando fiducia tra cittadini e istituzioni.
Si invoca da tempo, per il Terzo settore, un’iniziativa demiurgica del legislatore sull’attuale (soq)quadro normativo. Il non profit italiano è infatti penalizzato e compresso da una regolazione incoerente e, in alcuni casi, ostile. L’aspirazione è quella di superare lo stato di caos per promuovere un “cosmo” in cui soggetti eterogenei per dimensione, tipologia, campo d’azione, ma uniti nel perseguire finalità sociali, possano convivere, esprimersi e collaborare in un contesto più ordinato, trasparente e libero. Sembra essere questa l’intenzione alla base delle Linee guida per una riforma del Terzo settore pubblicate lo scorso maggio dal governo in carica e oggetto per un mese (13 maggio- 13 giugno) di una consultazione online aperta a organizzazioni e cittadini interessati.
La giustizia non è un’idea astratta, bensì una ricerca che accomuna credenti e no: un esercizio responsabile della libertà e dell’autonomia di giudizio, carattere distintivo degli esseri umani. Mai completa, è però indispensabile per la convivenza.
Il primo versetto della Bibbia («In principio Dio creò…») reca, nel testo ebraico, uno dei due Nomi, Elo(h)ìm, del Santo. Il plurale Elo(h)ìm indica l’attributo divino della Giustizia, il tetragramma singolare Adon(n)nài quello della sua Misericordia. Da qui un primo spunto di rifl essione e un anticipo di possibile conclusione, posto che la misericordia è giustizia più carità, apertura incondizionata all’altro, com-passione che diventa (per)dono, aprendo la prospettiva escatologica di una giustizia “altra”, che consiste non nel punire il male ma nel superarlo, cambiando il cuore degli uomini.
Redditi e ricchezze sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, mentre il divario di stipendio fra top manager e operai cresce vertiginosamente. Ciò non è solo ingiusto da un punto di vista etico, ma ha pesanti conseguenze sul sistema economico e sociale.
In alcuni passi dell’Antico e del Nuovo Testamento, in particolare in Luca 12,15 («Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni») e 33 («Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma») e in Giacomo 5,1-6 («E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco), emerge chiaramente l’orientamento alla cupidigia e alla brama di denaro da parte dell’uomo
Essendo sempre più scarso, è necessario valorizzare tutto il lavoro esistente: agricolo, artigiano, familiare, associato. Contro la pervasiva razionalità tecno-economica, il cristianesimo offre indicazioni ineludibili sul senso del servizio e del bene comune.
Tornato nell’immediato dopoguerra dai campi di concentramento Giuseppe Lazzati diede alle stampe Il fondamento di ogni ricostruzione, steso durante la prigionia, nell’intento di esplicitare il criterio con cui affrontare i gravi problemi del momento. Lo scritto di Lazzati costituisce un’appassionata perorazione a sostegno della visione unitaria dell’uomo religioso, mentre molti «sono i credenti che negli atteggiamenti quotidiani osservano un modo di essere e di agire che sembra dimenticare questa essenziale caratteristica». Quasi venti anni dopo troviamo autorevolmente affermato lo stesso principio nella Costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, forse con una preoccupazione ancor maggiore.
La tendenza prevalente oggi, da New York a Shanghai a Città del Capo, pare essere l’uniformazione del gusto internazionale. Uno dei più grandi architetti viventi difende invece il ruolo della storia e del passato. Perché l’architettura è un’arte.
«O desenho é o desejo da inteligência »: il disegno è il desiderio dell’intelligenza. In un certo senso è tutto qui Álvaro Joaquim de Melo Siza Vieira, 81 anni, uno dei più grandi architetti viventi: un’intelligenza che va a incidere nella realtà, nei muri e negli spazi, spinta da una sua forza interna che non è solo puro razionalismo. Nato in un paese di pescatori vicino a Oporto, da ragazzo voleva fare lo scultore. Si iscrisse ad architettura per non contrariare suo padre. Lo attirava Gaudí, il grande catalano visionario, venuto al mondo un 25 di giugno come lui, ma le loro architetture non potrebbero essere più diverse. I maestri di Siza sono stati piuttosto Alvar Aalto, Frank Lloyd Wright, Le Corbusier.
Al lettore contemporaneo la Bibbia mostra con sicurezza la necessità di separare maschio e femmina: non per contrapporli, ma perché vivano insieme. Il ruolo delle donne nella storia della salvezza invita a esplorare le vie della relazione con l’uomo.
È noto che l’approfondimento contemporaneo della riflessione ermeneutica ci ha permesso di ritrovare alcune verità essenziali riguardo alla lettura della Bibbia che una pratica unilaterale dell’esegesi scientifica aveva finito per oscurare. In particolare, ne risulta evidente che la nostra relazione con le Scritture non si esaurisce nel fatto che le leggiamo. Esse stesse, simmetricamente, hanno come finalità quella di “leggere” il loro lettore, di scoprirlo a se stesso, di immetterlo in un moto di conversione, quando egli accetta di porsi sotto la loro autorità. Nello stesso tempo, ci diventa manifesto che la potenza di senso del testo è direttamente proporzionale agli interrogativi che gli rivolge il suo lettore. Per rilasciare la Rivelazione di cui è portatore, il testo ha bisogno di essere aperto da un lettore solido. Intendiamo con questo un lettore che esiste come soggetto personale, radicato nel concreto della sua condizione e del suo tempo. E intendiamo anche un lettore che ha abbastanza fiducia da credere che le Scritture non vengano rovinate dagli interrogativi e dalle obiezioni che le nostre culture contemporanee in continua mutazione possono loro rivolgere.
A partire dal dibattito francese sul “matrimonio per tutti”, chiediamoci se è davvero plausibile costruire una società che, in aperta rottura con tutte le altre società storiche conosciute, non si riferisce più alla natura e a principi condivisi.
Rimettere in discussione certe istituzioni nel modo di concepire la vita privata è quanto di più rivelatore vi sia della pressione esercitata dalla dinamica dell’uguaglianza e dalla penetrazione dei valori democratici. Potevamo credere che si trattasse dell’ultimo ambito in cui le differenze tra le persone, se non più giustificate dalla volontà di Dio, dipendessero dalla natura. Se rimettere in discussione norme e istituzioni pubbliche era legato al progetto di autonomia e giustificato dal pensiero relativista, la natura – se non la volontà divina – sembrava per contro segnare un limite invalicabile: il sesso, l’età e l’origine etnica non potevano essere il prodotto di una scelta.
Nel conflitto che a inizio Novecento ha straziato l’Europa e il pianeta affondano le radici della nostra società. Cultura, ma pure distruzione e violenza. Tecnologie, ma pure dittature politiche e controllo delle masse. Una lezione da non dimenticare.
Colui che scrive qui non è figlio della Prima guerra mondiale, è nato vent’anni dopo la fi ne di quel mattatoio europeo. In realtà quel conflitto non aveva le dimensioni geografi che e logistiche di quello che è scoppiato vent’anni dopo, ma è stato più crudele, più umanamente crudele di esso. I corpo a corpo, le trincee con tutto l’orrore che hanno rappresentato, lo sbudellamento reciproco, le bombe a mano, il tifo, le pulci, le fucilazioni in qualche modo appartenevano ancora alle antichissime tradizioni belliche. Dopo, tutto è totalmente cambiato e anche oggi sta cambiando, direi ogni anno, completamente, secondo l’avanzare della tecnologia. Il fatto è che la coscienza del passato nelle generazioni giovani di oggi sta perdendo importanza.
La perdita di competenze linguistiche è evidente nella nostra società. Basti sapere che oggi il vocabolario di base si aggira sulle 50.000 parole. Manca l’aggancio con la realtà, se non la si traduce in linguaggio. Un paradosso, nell’era della comunicazione.
La povertà lessicale è in crescita, come il numero dei nuovi poveri vittime della crisi? Non da oggi, il dibattito impegna le migliori intelligenze. Si ritiene che sempre più persone viaggino con un bagaglio ridottissimo di parole, giusto l’indispensabile per cavarsela nelle situazioni più comuni. Prevalgono usi “popolari” che si collocano al livello basso della variazione socio-culturale. Sono ignote o disattese le differenze di registro, come osservava già Cesare Segre. Più voci lamentano inoltre un generale abbassamento delle competenze linguistiche anche nelle produzioni scritte di laureati in discipline umanistiche. Strafalcioni, improprietà, ignoranza del lessico comune “e quant’altro” sembrano documentare l’avvenuta unità d’Italia, a scapito della norma. Peraltro, la norma cammina con le gambe degli uomini (e delle donne) e nella pratica quotidiana si adottano le forme più diffuse, con sguardo benevolo verso le deviazioni dallo standard. Prevalgono i democratici e i tolleranti, almeno sull’uso delle parole.
Le prove nazionali sono importanti per conoscere il livello di apprendimento degli alunni in aree di sapere fondamentali. E per aiutare le scuole a leggere i punti deboli su cui intervenire. Ma, se decontestualizzate, possono risultare relative e fuorvianti.
Se a scuola volete accendere gli animi, parlate di valutazione. Gli insegnanti, rapidamente, cominciano a parlare delle loro difficoltà nel trovare criteri condivisi nei consigli di classe, dell’impossibilità di avere a disposizione tempi adeguati per verificare in modo approfondito gli apprendimenti realmente raggiunti dagli studenti, della fatica di comunicare i risultati a famiglie sempre più pronte a mettere in discussione i voti assegnati ai propri figli.
Da comportamento vizioso a patologia riconosciuta. Negli ultimi anni la ludopatia è cresciuta in modo esponenziale, diventando ufficialmente una malattia. Tra le sue cause originarie si riscontrano depressioni, paranoie e disarmonie affettive.
Il gioco d’azzardo patologico è ufficialmente una malattia, cresciuta negli ultimi anni in modo esponenziale. Secondo fonti attendibili gli italiani investono nel gioco quasi 100 miliardi di euro all’anno, tra Gratta e vinci, slot-machine, varie lotterie e scommesse di tutti i tipi. La parola “ludopatia” comprende tutte queste possibilità, ma allo stesso modo è un termine scomodo, che esprime un concetto in apparenza contraddittorio e che risuona dentro di noi come qualcosa di poco naturale. Come può un gioco diventare una malattia?
Perché, e in quale modo, viene messa in discussione – soprattutto in Italia – una pratica che ha salvato più vite umane nella storia dell’umanità. E che ne salverà ancora moltissime. Per questo servono investimenti e una corretta cultura della prevenzione.
«Vaccinazione» (dal latino vacca) è il termine che Edward Jenner ha inventato nel 1801 per il suo trattamento contro il vaiolo; e tanto successo ha avuto la sua innovazione che nel 1840 il governo britannico vietò trattamenti preventivi alternativi, mentre la definizione venne adottata definitivamente da Pasteur per l’immunizzazione contro ogni malattia. Dopo l’acqua pulita, la vaccinazione è l’intervento di sanità pubblica più efficace al mondo per salvare vite umane e promuovere buona salute, ma oggi i vaccini e le vaccinazioni sono a un importante punto di svolta. Un elevato numero di nuovi vaccini, con un grande potenziale per il controllo delle malattie infettive, è stato appena autorizzato o è in fase avanzata di sviluppo.
La famosa produttrice discografica dice la sua sullo stato di crisi in cui versa il mercato nazionale, in condizioni drammatiche rispetto a quello estero. Colpa di un mancato interesse generale per il settore e di una scarsa apertura all’innovazione.
Quando andavo ancora a scuola consideravo i professori responsabili del mio mancato interesse per lo studio. Ma, crescendo, ho cominciato a pensarla diversamente: ho capito che a volte è più facile accettare le cose quando la colpa non si attribuisce a se stessi. Nel 1959 mio padre mi suggerì di andare a lavorare a Milano, che allora offriva molte opportunità. Così ho lavorato prima in una ditta che produceva antiparassitari, poi in una che realizzava impianti antincendio. Un giorno sul «Corriere della Sera» lessi l’annuncio di una casa discografica che cercava una segretaria per l’ufficio stampa. Mi presentai per il colloquio e nel 1967 fui assunta.
Sabato 16 dicembre presentazione di "Le fiabe non raccontano favole" di Silvano Petrosino a Verona: diventare donna attraverso Cappuccetto Rosso, Biancaneve e Cenerentola.
Mercoledì 6 dicembre a Pesaro presentazione di "Dalla metafisica all'ermeneutica" a cura di Piergiorgio Grassi, volume dedicato al filosofo della religione Italo Mancini.