Sviluppo dei popoli, sviluppo della persona
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Resta tuttora drammaticamente aperto - anzi, è reso più acuto dai tumultuosi processi di globalizzazione che investono il nostro mondo - il problema che Paolo VI aveva posto all'attenzione della Chiesa e di "tutti gli uomini di buona volontà" con la sua enciclica del 1967: «Lo sviluppo dei popoli, in modo tutto particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell'ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio...» (PP, 1).
La meta, che poteva sembrare in qualche modo vicina, si rivelerà in realtà assai più lontana di quanto si era potuto immaginare: «Le speranze di sviluppo, allora così vive, appaiono oggi molto lontane dalla realizzazione», annota con schietto realismo Giovanni Paolo II (SRS, 12). Per quanto non manchino i segni di speranza, non vanno taciute le nuove e molteplici difficoltà che nel frattempo sono insorte e che rendono improponibile un'idea di sviluppo inteso come un processo quasi automatico e di per sé illimitato, alimentando piuttosto «una fondata inquietudine per il destino dell'umanità» (SRS, 21). Se, come già aveva ben visto Paolo VI, lo sviluppo dei popoli non consiste soltanto in una loro crescita economica (che a torto si presume come qualcosa di inesorabile), ma suppone lo «sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini» (PP, 42), la condizione essenziale perché tale «umanesimo plenario» possa incominciare a realizzarsi è individuata da Giovanni Paolo II nella "solidarietà". Occorre che lo sviluppo economico sia nel contempo sviluppo solidale; e che la solidarietà non sia intesa semplicemente come «un sentimento di vaga compassione, di superficiale intenerimento per i mali di tante persone», ma che sia concepita e vissuta come «determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune. Ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (SRS, 38). Che ne è oggi delle riflessioni, delle valutazioni, delle indicazioni e delle provocazioni formulate dalle due encicliche? Tre relatori particolarmente autorevoli, tre studiosi che fanno capo ad aree disciplinari diverse, hanno accettato di provare a rispondere a queste domande. |
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