Questo volume attraversa e congiunge culture, discipline e sensibilità differenti, distinguendosi nettamente per impostazione e ricchezza di contenuti dai molti studi dedicati al rapporto tra ‘diritto e letteratura’ (Law and Literature). Il lettore è guidato da eminenti scrittori, critici letterari, esperti di comunicazione e giuristi, lungo un affascinante itinerario che, andando al cuore di fondamentali opere narrative italiane e straniere, affronta essenziali problemi del diritto, del crimine, della responsabilità.
L’apertura al dialogo, il piacere del pensiero alto e il ‘senso di giustizia’ vengono stimolati da una originalissima lettura di capolavori letterari e cinematografici. In questo libro, la letteratura e le altre ‘arti narrative’ confermano la loro vocazione a dischiudere orizzonti di senso nei quali ognuno è aiutato a trovare risposte alle grandi domande del vivere comune. La cultura delle regole, il rapporto tra legge formale e giustizia sostanziale e tra diritto e moralità, la questione della responsabilità, della colpa e del perdono, le tragedie del pregiudizio e il valore etico del pensiero, il tema della narrazione come resistenza alla disumanità (fino a quella estrema del genocidio) e luce essa stessa per l’«umanità in tempi bui», articolano un’idea di giustizia capace di superare il solco profondo che separa la fluidità senza confini della vita e la rigidità dell’ordine giuridico, immergendosi nei problemi delle persone e conciliandone i conflitti.
Scritti di: Alessandro Antonietti, Gianfranca Balestra, Mario Barenghi, Eraldo Bellini, Andrea Bienati, Gianni Canova, Annamaria Cascetta, Arturo Cattaneo, Alberto Cavaglion, Roberto Cazzola, Francesco D’Alessandro, Remo Danovi, Gabriele Della Morte, Alain Maria Dell’Osso, Pasquale De Sena, Marina Di Lello Finuoli, Ruggero Eugeni, Luciano Eusebi, Luigi Forte, Gabrio Forti, Pierantonio Frare, Paola Gaeta, Fausta Garavini, Giovanni Gasparini, Saverio Gentile, Velania La Mendola, Claudia Mazzucato, Antonio Oleari, Carlo Pagetti, Carlo Enrico Paliero, Alessandro Provera, Francesco Rognoni, Giovanni Santambrogio, Roberto Scarpinato, Cesare Segre, Stefano Solimano, Biancamaria Spricigo, Arianna Visconti.
Secondo di una serie, il libro trae origine dai cicli seminariali su Giustizia e letteratura organizzati dal Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Il saggio si inserisce in un progetto di ricerca su ‘giustizia e letteratura’, che vede la partecipazione congiunta di giuristi e letterati, ed affronta il tema della ‘responsabilità’ nel teatro, luogo per eccellenza (in particolare nella forma della tragedia), tra le arti, di ‘parole responsabili’. Il testo esplora il tema della responsabilità in relazione a come questo viene sviluppato in alcune opere classiche e moderne e al contesto dei mutamenti ideologici di questo concetto. I testi presi in considerazione sono l’«Antigone» di Sofocle, «Il lutto si addice a Elettra» di Eugene O’Neall, l’«Antigonemodell» di Brecht, il «Pilade» di Pasolini e «Finale di partita» di Samuel Beckett. In conclusione viene sottolineata la forza profetica dell’opera di Beckett nell’individuare e mettere in guardia contro la dissoluzione della responsabilità nell’epoca moderna.
Il saggio analizza il rapporto tra i concetti di limite, trasgressione e responsabilità, nella prospettiva del giurista, in un ideale raffronto tra la tragedia antica e le sue riscritture moderne. L'analisi si concentra in particolare sulla trilogia dell’Orestea di Eschilo e sull'Antigone di Sofocle, nonché sulle loro rivisitazioni moderne, ad opera di autori quali Brecht, Beckett, Pasolini.
Parte seconda. Percorsi di giustizia nella letteratura italiana
Il tema della giustizia è centrale nella riflessione manzoniana: basti pensare alla Storia della Colonna infame. Esso compare anche nei Promessi sposi, dove addirittura percorre l’intero libro: dall’Introduzione, in cui l’anonimo si domanda come sia possibile che in un mondo retto dal “Re Cattolico nostro Signore” siano possibili tanti “atti tenebrosi, malvagità e sevitie”, alla conclusione, che sembra sanare tutte le ingiustizie patite da Renzo e Lucia, ma apre in realtà alla consapevolezza che le vicende del mondo si ripeteranno, sotto altra veste e con altri personaggi, come aveva appena ricordato frate Cristoforo ai due promessi: i vostri figli, dice loro, “verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori”. Non sorprende, quindi, che il personaggio principale, Renzo, sia guidato da un’ansia di giustizia – lui, che subisce una prepotenza contro la quale pare non esservi rimedio – che si manifesta fin da subito e che trova sfogo in una famosa battuta: “A questo mondo c’è giustizia, finalmente!”. Ma questo desiderio di giustizia è ancora troppo simile alla vendetta, quella che Renzo desidera di prendersi contro don Rodrigo, quando sogna di ammazzarlo a tradimento. Molta strada – per le vie della Lombardia secentesca e per quelle dell’esperienza personale – dovrà fare il povero Renzo per restituire alla parola ‘giustizia’ il suo significato più vero: fino all’incontro con don Rodrigo moribondo e alla decisiva mediazione di padre Cristoforo (che a sua volta, fin da quando si chiamava Lodovico, era un assetato di giustizia), che nel lazzaretto riesce a trasformare la volontà di vendetta di Renzo in offerta di perdono. Si tocca qui un punto essenziale: perché il perdono di Renzo non è solo una conquista interiore, ma un gesto che rimette in moto la macchina narrativa. Se Renzo sfogasse il proprio desiderio di vendetta, uccidendo don Rodrigo, sarebbe nuovamente perseguito dalla legge e dovrebbe rinunciare per sempre a Lucia; dopo aver perdonato, invece, egli riuscirà a ritrovare Lucia e a sposarla. Il perdono, allora, rimette in moto la storia: la storia narrata nel romanzo, ma forse anche la storia dell’uomo in generale, come parrebbero dimostrare casi recenti quali la commissione di riconciliazione in Sudafrica. Anche traguardati da questo punto di vista particolare, I promessi sposi confermano la loro straordinaria attualità, offrendoci un punto di vista inedito e sempre valido anche sulle vicende terribili di un presente in cui la logica della vendetta sembra di nuovo sul punto di diventare la chiave regolatrice dei rapporti tra gli uomini e tra i popoli.
Il testo analizza i concetti di giustizia e di perdono quali vengono presentati da Manzoni attraverso vari personaggi de I Promessi Sposi. Ne emerge una teorizzazione progressivamente elaborata, nel romanzo, dell’idea di giustizia in termini opposti al paradigma retributivo, che si rivelano consonanti alla prospettiva oggi emergente in ambito penalistico della c.d. giustizia riparativa.
Dopo aver fornito essenziali indicazioni della biografia e della formazione intellettuale di Silvio Pellico, il contributo analizza nella sua stratificazione testuale il libro de Le mie prigioni, ponendo in luce i passaggi che impongono a Pellico particolari attenzioni in vista della censura.
Il Risorgimento è un'epoca storica di centrale importanza. Anche al giorno d'oggi il giurista non può non confrontarsi con alcune figure essenziali di questo periodo come Camillo Benso conte di Cavour o Silvio Pellico e con l'ideale di Giustizia che perseguirono i patrioti. Giustizia intesa come comprensione dialettica della diversità e ricerca di un equilibrio tra rispetto della norma, attenzione alla dimensione umana del diritto e perseguimento delle finalità dell'ordinamento.
Le avventure di Pinocchio, famosa opera letteraria di Carlo Collodi, è analizzata da una prospettiva giusletteraria, mettendone in risalto gli aspetti di maggior rilevanza da un punto di vista giuridico. Oltre a contenere accurate descrizioni di numerosi reati e forme di vittimizzazione, il libro può essere letto come un’ampia metafora della relazione che ogni essere umano intrattiene col proprio corpo e più in generale con tutte le limitazioni proprie della condizione umana. Il protagonista del romanzo (appunto un burattino ‘di legno’) è dunque analizzato nella sua costante fuga da questa condizione e nella conseguente negazione di tali limitazioni. Dalla storia del burattino si può trarre l’insegnamento che gli individui dovrebbero imparare ad accettare i limiti intrinseci alla loro natura, così come quelli propri della vita associata e, specularmente, che governi e istituzioni statuali non dovrebbero perseguire politiche e regolamentazioni eccessivamente paternalistiche o ‘perfezionistiche’, che ignorino il connaturato «legno storto dell’umanità»: le leggi dovrebbero, cioè, essere configurate in modo tale da adeguarsi in una certa misura a questa realtà e, in conseguenza, ai rischi sempre impliciti nella libertà.
Il saggio, nel contesto di una riflessione sull'opera di Collodi, analizza, prendendo spunti da alcuni brani di Pinocchio, il trattamento riservato dal diritto penale sostanziale e processuale alla menzogna, con particolare riguardo alle potenzialità e ai limiti dell'utilizzo delle neuroscienze per saggiare la verità di un'affermazione.
Il saggio analizza l'opera di Leonardo Sciascia dal punto di vista giuridico, traendone vari spunti sul tema dei rapporti tra l'autorità e il cittadino, con particolare riguardo all'utilizzo del diritto penale come strumento di governo e di potere.
Il contributo trae origine dall’intervento tenuto in occasione del seminario dal titolo "L’«egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, a vent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio", nell’ambito del Ciclo seminariale Giustizia e letteratura (Law and Literature) del Centro Studi "Federico Stella" sulla Giustizia penale e la Politica criminale. I termini legge, diritto, verità e giustizia sono ricorrenti nell’opera di Leonardo Sciascia. La lettura dei suoi scritti offre un’importante occasione di riflessione sui legami che ‘congiungono’ i due elementi cui è intitolato il Ciclo seminariale Giustizia e letteratura (Law and Literature). Leonardo Sciascia fu un attento e sensibile interprete dei problemi della giustizia. L’intreccio tra Giustizia e Verità lega le vicende delle opere di Sciascia e caratterizza interamente la sua vita, spingendolo a battersi, come scrittore, intellettuale e politico, contro ogni forma di falsificazione della storia od occultamento della verità.
Parte terza. Percorsi di giustizia nella letteratura tedesca
Nel quadro della sterminata letteratura (inclusa quella giuridica) dedicata a Franz Kafka, questo saggio si focalizza sul tentativo di isolare ed esplorare l’esperienza, dolorosamente vissuta dallo scrittore praghese, di privazione, fin dall’infanzia, della sicurezza e della fiducia dei genitori (e in particolare del padre). Un’esperienza da Kafka rappresentata in molte delle sue opere e che trova un rispecchiamento nel modo in cui molti cittadini possono percepirsi come esclusi e guardati con diffidenza da parte delle istituzioni pubbliche e dell’ordinamento giuridico. In una società di questo tipo, la legge si trova costretta a ricorrere alla coercizione e a pene severe per preservare l’ordine sociale e l’osservanza delle regole. Nelle opere di Kafka (in particolare La metamorfosi, Il processo, Il castello), attraverso le sofferenze dei protagonisti si svela dunque, anche a giuristi e legislatori, quanto fondamentali siano un approccio ‘responsivo’ alla regolamentazione e il riconoscimento giuridico e sociale non solo dei fondamentali diritti umani, ma ancor più di un eguale rispetto per ogni individuo. Proprio tale riconoscimento costituisce il prerequisito di qualsiasi organizzazione sociale che voglia essere in grado di raggiungere, senza conflitti e in modo efficace, i suoi obiettivi.
Parte quarta. Percorsi di giustizia nella letteratura inglese
Il saggio si accosta ad alcune delle più note opere di Herman Melville (prevalentemente Benito Cereno e Billy Budd) da una prospettiva giusletteraria. La prima parte si incentra prevalentemente su Benito Cereno e, attraverso l’analisi del testo letterario, affronta il tema dell’ambiguità intrinseca a ogni costruzione sociale di gerarchie, distribuzioni del potere, forme di esclusione e di stigmatizzazione, e assegnazione di ruoli, dentro e fuori quelle che Goffman ha denominato ‘istituzioni totali’. Si analizza il ruolo del diritto penale come strumento per la riaffermazione di equilibri di potere esistenti, insieme all’importanza di un approccio critico allo studio delle istituzioni sociali e legali esistenti. La seconda parte del lavoro è essenzialmente dedicata a un’analisi di Billy Budd, opera che, attraverso la triade di personaggi composta da Vere, Billy e Claggart, fornisce al lettore una perfetta parabola delle tre componenti che informano il diritto penale, un disequilibrio tra le quali non può che produrre ingiustizia, seppure in modi diversi: il capitano Vere rappresenta la componente formale della legge, il bisogno di regole positivizzate e di un insieme organico e chiaramente definito di prescrizioni e procedure, senza le quali il libero perseguimento degli interessi e valori di ciascun individuo rischia sempre di degenerare in abuso e violenza, ma che a sua volta implica il costante rischio di scivolare in un legalismo vuoto e nell’applicazione acritica di leggi contrarie ai diritti umani fondamentali; Billy Budd, ‘uomo allo stato naturale’, simboleggia la forza del ‘diritto naturale’ e di quei valori e diritti fondamentali che richiedono riconoscimento e protezione incondizionati – anche, se necessario, in sfida a leggi positive ingiuste – ma il cui perseguimento sciolto da qualsiasi limite formale può condurre, a sua volta, alla violenza e all’ingiustizia; Claggart, infine, il maestro d’armi, rappresenta il lato più oscuro del diritto penale, ovvero quella componente di pura forza e potere, nonché di crudeltà, che è intrinsecamente connaturata a questo ramo dell’ordinamento, in particolare nella sua parte sanzionatoria. Proprio come la Legge sull’ammutinamento che Vere decide di applicare a Billy, Claggart impersona tutti i rischi che discendono da una concezione del diritto penale come strumento di ‘guerra’ contro esseri umani ridotti a meri oggetti, a strumenti (‘hands’, nel gergo marinaresco dell’epoca), a nemici (personali o dell’intera società). L’ultima parte del saggio si confronta infine con la natura relazionale propria di ogni regola, e coi pericoli che ogni ordinamento che dimentichi tale dimensione inevitabilmente corre, come pure, al contrario, con le possibili vie per sfruttare e sviluppare il potenziale ‘relazionale’ e ‘riparativo’ pure presente nello stesso diritto penale.
Attraverso un’analisi delle opere di Susan Glaspell Una giuria di sole donne e di Daphne du Maurier Mia cugina Rachele, lette in parallelo al modello ‘classico’ di detective story rappresentato dai racconti di Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, il saggio affronta, da una prospettiva giusletteraria, i temi del pregiudizio misogino e della discriminazione di genere e il modo in cui questi possono influenzare l’amministrazione della giustizia. La prima sezione (‘In viaggio senza mappe: Susan Glaspell e il detective cieco’) si incentra sulla prima delle due opere citate e riflette su come i pregiudizi culturali – e in particolare i pregiudizi che colpiscono il genere femminile – possono influenzare un’indagine rendendo gli investigatori (uomini) ciechi rispetto a indizi e prove che risultano, invece, perfettamente visibili e comprensibili nel loro significato alle donne; in relazione a questo tema, vengono affrontati anche i concetti di ‘deduzione’ e ‘abduzione’, in rapporto a quelle fallacie culturali che possono distorcere il ragionamento del ‘detective’. La riflessione si sviluppa poi nella seconda sezione (‘In viaggio con la mappa: Daphne du Maurier e il giudice prevenuto’), dove si esplorano i modi in cui quegli stessi condizionamenti culturali possono condurre a un’affrettata ed erronea individuazione del ‘colpevole’ e perfino a una condanna tanto scorretta quanto ingiusta; viene sottolineata in particolare l’importanza di un approccio ‘dialettico’ alla ricerca e alla valutazione degli elementi di prova nel procedimento penale, così come il rischio, in caso contrario, di incorrere in gravi errori giudiziari. Infine, l’ultima parte del saggio (‘Riscrivere le mappe: quis custodiet ipsos custodes?’) affronta sinteticamente l’interrogativo se ‘privilegi di genere’ possano e debbano essere introdotti in un ordinamento giuridico per controbilanciare pregiudizi patriarcali ancora radicati nella nostra società.
Grazie allo spunto fornito da alcuni testi di critica cinematografica inclusi nel volume, la cinematografia di Stanley Kubrick è presentata come un campo di battaglia in cui continuamente si scontrano la parola e l’immagine. Con l’immancabile vittoria dell’immagine sulla parola. A partire da questa prospettiva, il saggio dipana una riflessione sull’intreccio tra immagine e diritto, tra immagine e mondo della parola, per scoprirvi i nessi che conducono a una teoria della giustizia. Kubrick è quindi un pre-testo per porre una domanda scomoda: che cosa hanno da dire e da insegnare il ‘mondo dell’immagine’, la ‘letteratura visiva’, l’arte visuale, al ‘mondo senza immagini’ del diritto? Quali ardite (ri)congiunzioni sono possibili? Il saggio non si ferma alla questione dell’iconografia della giustizia, tema su cui molto si è scritto, ma si spinge oltre in un’analisi di come il contributo delle immagini possa nutrire di realtà l’universo giuridico dall’immaginario oggi desertificato: un nutrimento che va a vantaggio della qualità delle norme e della formazione del giurista. D’alto canto, lo scritto si spinge oltre l’‘immaginario unico’ a cui il diritto è abituato – la bilancia, la spada, la benda sugli occhi della Giustizia – e propone due immagini di luoghi in cui si amministra la giustizia, capaci di dare all’immaginazione un’idea nuova della giustizia stessa. La Corte suprema di Israele con le sue linee rette e tonde, le sue trasparenze e luminosità, parla di un’idea di giustizia capace di avvicinare il ‘diritto’ alle linee curve, e talvolta storte, delle vicende umane. La Corte costituzionale sudafricana con il suo logo “Justice under a tree” parla di un’idea di giustizia mossa da istanze e scopi di protezione e cura, anziché di controllo e punizione. Da simili riflessioni, solo apparentemente lontane dal tecnicismo giuridico, si traggono alcuni indizi per una riprogettazione del modo di fare e di rendere giustizia.
La trama di Arancia Meccanica innesca una riflessione sui caratteri della delinquenza giovanile e sulle possibilità di contrasto nel segno di una "vera" risocializzazione.
Parte quinta. Se questo è un uomo: narrare la resistenza al disumano
Il saggio esplora la ‘giustizia di Primo Levi’, da un punto di osservazione penalistico e criminologico interessato alla domanda di giustizia e al rapporto che quest’ultima genera tra la persona offesa e il colpevole. Primo Levi è qui avvicinato in quanto vittima: i suoi scritti offrono allo studioso del diritto penale la preziosa possibilità di incontrare e conoscere con rara lucidità e precisione lo spettro di esperienze di un essere umano che subisce, fra l’altro, alcuni dei crimini più orrendi che la storia del male criminale abbia portato sulla scena del mondo, crimini alle prese con i quali gli ordinamenti giuridici interni e il diritto internazionale sono tuttora alle prime armi. Primo Levi si muove nei territori del dolore e della morte generati dal crimine al modo in cui C.S. Lewis scandaglia, nel suo ‘diario’ autobiografico, quelli del dolore e della morte provocati dalla malattia: A Grief Observed è l’efficacissimo titolo originale di quell’opera. A Crime Observed potrebbe essere l’immaginario titolo sotto cui, a beneficio dei giuristi, compendiare i testi autobiografici di Levi. Questa ‘osservazione’ privilegiata restituisce al giurista una conoscenza particolare della domanda di giustizia della vittima, una domanda che – in Primo Levi – si esprime significativamente nella forma di un’accusa, non di una richiesta di vendetta o punizione.
Il contributo prende spunto e analizza due testimonianze processuali rilasciate da Primo Levi nell'ambito di due diversi processi, di cui uno è quello di Gerusalemme a carico di Adolf Eichmann. La lingua 'giuridica' di Primo Levi utilizzata in queste testimonianze è assolutamente coincidente con quella delle sue opere. Asciutta, essenziale, precisa: ottimo esempio di una testimonianza seria e attendibile. La testimonianza destinata al processo di Gerusalemme non fu, però, mai assunta in dibattimento, probabilmente perché, in opposizione ad alcune letture dello sterminio del popolo ebraico, non considerava la Shoah una 'cosa dell'altro mondo', ma un fenomeno ripetibile in qualsiasi contesto e che questa fosse la sua caratteristica più tragica. Il contributo si sofferma sul ruolo che la lingua poetica e letteraria può avere nel processo e se si possa 'fare letteratura' anche dopo un'immane tragedia come la Shoah.
Il breve saggio prende spunto dal libro di Primo Levi Se questo è un uomo e da alcuni significativi documentari sui processi per i crimini contro l’umanità perpetrati durante la Seconda Guerra Mondiale per riflettere sulle caratteristiche di una narrazione che voglia non solo fare memoria di orrori passati (in particolare con l’obiettivo di evitarne la ripetizione), ma altresì rendere possibile un giudizio equo e distaccato su quegli stessi crimini, sia esso un giudizio personale del lettore o un giudizio istituzionale emesso nell’aula di un tribunale.
Nel corso del presente articolo si avanzano taluni alcuni argomenti critici relativi all'introduzione del reato di negazionismo all'interno degli ordinamenti giuridici nazionali.
Il saggio si incentra sulla questione della responsabilità individuale per gravi violazioni dei diritti umani nel quadro di situazioni di ‘giustizia di transizione’. Si sostiene l’idea che un approccio di stampo strettamente ‘positivista’ non sia in grado di offrire soluzioni ai gravi problemi giuridici che sorgono in contesti di questo tipo (in particolare in relazione all’applicazione retroattiva di principi legali). Questo è dimostrato dall’analisi di una ricca giurisprudenza relativa alla punizione di guardie di confine della DDR. Tale giurisprudenza è messa a confronto con altre pronunce tedesche relative a crimini di guerra commessi da soldati tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale. Il nucleo concettuale della cosiddetta ‘Formula di Radbruch’ costituisce il riferimento per le argomentazioni giuridiche sviluppate dall’autore.
Il testo riflette su esperienze femminili di risposta al male secondo logiche alternative al male, in conformità al profilo femminile dell’accompagnamento di ogni nuova vita alla vita, che non risponde a logiche di corrispettività.
Il saggio studia le forme di contestazione e di resistenza operate dalle donne contro la dittatura argentina, che nel periodo dal 1974 al 1983 si rese responsabile della sparizione di migliaia di dissidenti. Oggetto privilegiato di analisi sono la ‘manipolazione delle parole’ macchinata dal regime e le sue implicazioni sul piano giuridico. Tale disegno servì da un lato a dissimulare gli abusi di potere della classe dirigente, dall'altro a impedire ogni forma di umana immedesimazione, soppiantata dal processo di 'reificazione' delle vittime. La 'contraffazione' linguistica determinò il sovrapporsi di due livelli normativi: quello 'pubblico', costituito da atti legislativi legittimi solo formalmente operanti, e quello 'segreto', composto dagli ordini illegittimi di sparizioni ed esecuzioni letali estranei a ogni forma di controllo legale. Al 'lessico del terrore' del regime oppressivo si oppose la lotta per la verità delle donne argentine: la 'silenziosa danza di protesta' delle Madres de Plaza de Mayo e le narrazioni di chi sopravvisse alle violenze. Nella parte conclusiva, l'autrice esplora la relazione tra i drammatici eventi della dittatura argentina e i 'crimini contro l'umanità', in particolare quello di 'genocidio' la cui corrente definizione tuttavia non permette di sussumere i fatti sotto la citata fattispecie.
Il saggio sintetizza e discute le principali tematiche emerse dal convegno «Se questo è un uomo. Narrare la resistenza al disumano», dedicato principalmente all’opera di Primo Levi e al tema dei crimini contro l’umanità, i cui atti sono inclusi nello stesso volume. Vengono illustrate le molteplici connessioni tra opere letterarie e crimini di questo tipo, e in particolare la capacità delle narrazioni (anche cinematografiche) di illustrare il ruolo del linguaggio per la sopravvivenza psicologica degli individui durante e dopo la terribile esperienza della detenzione nel lager. Un altro tema che emerge da opere narrative di questo tipo è quello delle scelte morali estreme che le persone (e in particolare le vittime) sono costrette ad affrontare in tali contesti.
Biografia dell'autore
Il Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale (CSGP) nasce nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con lo scopo di promuovere la ricerca teorica e applicata sui problemi della giustizia penale e della politica criminale, in continuità con gli insegnamenti di Federico Stella, a cui il Centro è intitolato, in una prospettiva interdisciplinare di ‘scienza penale integrata’, attenta a metodi e risultati dello studio criminologico e agli apporti delle scienze empirico-sociali, nonché all’attuazione dei princìpi costituzionali delle democrazie liberali.
Il CSGP, diretto da Gabrio Forti, ordinario di Diritto penale e Criminologia nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica, si avvale di un autorevole comitato scientifico (di cui fanno parte magistrati, esperti di chiara fama in materie giuridiche, economiche, psicologiche e filosofiche) e di un ampio gruppo di ricerca composto da professori, ricercatori, dottorandi. L’attività di ricerca del CSGP riguarda i più importanti settori del diritto penale e, specificamente, il diritto penale dell’economia e dell’ambiente, la responsabilità degli enti, la prevenzione e il contrasto della corruzione e della criminalità organizzata, la tutela del patrimonio culturale, il problema della medicina difensiva e la responsabilità medico-chirurgica, la condizione carceraria e le alternative alla pena detentiva (con particolare attenzione alla giustizia riparativa), oltre che, dal 2009, l’apporto formativo della letteratura per gli studi giuridici e le professioni forensi.
Il 13 giugno a Roma si parla di "Sud. Il capitale che serve" di Borgomeo con Quagliarello, Francesco Profumo, Graziano Delrio, Nicola Rossi e Raffaele Fitto.