I testi presentati in questo volume sviluppano argomenti storico-artistici prevalentemente legati all’area contemporanea, settore di studi nel quale Luciano Caramel ha dato un contributo fondamentale per la definizione e l’approfondimento di una disciplina da pochi decenni professata nell’università italiana. In suo onore, studiosi in buona parte formatisi sull’impulso delle sue ricerche scientifiche e colleghi di vari atenei hanno elaborato saggi originali che coprono un arco cronologico compreso tra la seconda metà dell’Ottocento e la più stretta attualità. Li unisce una metodologia di lavoro fondata sulla consapevolezza della validità dell’approccio storico, da cui scaturisce l’assunto scelto per il titolo: il presente va affrontato sapendo che il ‘contemporaneo’ è destinato a divenire storia, e che nel presente vive il passato.
Gli scritti sono organizzati in quattro sezioni, nelle quali è possibile riconoscere i diversi interessi di ricerca di Luciano Caramel: l’individuazione delle radici della modernità nell’arte di fine Ottocento; la dialettica fra avanguardia e rapporto con la tradizione nell’arte del primo Novecento; l’apertura alle diverse forme di ricerca artistica nel secondo dopoguerra e nell’attualità; la riflessione sul ruolo del critico nei confronti del presente. Ad esse si aggiunge una quinta sezione, miscellanea, con interventi di storici dell’arte e di discipline affini, volti a tracciare percorsi paralleli, pur con singolari momenti di tangenza con la storia dell’arte contemporanea.
Conclude il volume una bibliografia completa e ragionata, che consente al lettore di orientarsi all’interno della lunga e appassionata attività che da circa cinquant’anni Luciano Caramel svolge in qualità di storico e critico.
Questo volume è stato pensato per rendere omaggio a Luciano Caramel, che in tanti anni di appassionata attività di studioso, critico e docente, ha contribuito e contribuisce in modo significativo allo sviluppo e all’ampliamento delle conoscenze nell’ambito della storia dell’arte contemporanea. Studioso instancabile di periodi storici differenti, che spaziano dall’arte romanica alla contemporaneità, ma restano pur tuttavia collegati fra di loro da una trama di ragioni ideali e insieme concrete, Luciano Caramel ha nei suoi interventi, infatti, dimostrato come lo studio dell’arte contemporanea meriti di essere affrontato con uno strumentario metodologico fondamentalmente non diverso da quello adottato per l’arte del passato, ma aperto al dibattito critico più aggiornato.
Quando, trentasettenne, nel 1868, Odoardo Tabacchi si trasferisce a Torino per insediarsi sulla cattedra accademica di scultura appena lasciata da Vincenzo Vela può già vantare al proprio attivo alcuni importanti riconoscimenti, come il premio per la scultura dell’Accademia di Brera, vinto nel 1861 con la prima versione in gesso, a capo scoperto, del suo notissimo Arnaldo da Brescia, realizzato l’anno precedente durante il pensionato di Roma. La chiamata all’Accademia Albertina acquista per lui un preciso valore di consacrazione, dichiarandolo senza esitazioni né mezzi termini come il principale rappresentante di quella seconda generazione artistica, che, tra Lombardia e Piemonte, proprio ricalcando le orme del maestro ticinese, aveva rapidamente portato ai suoi esiti più alti di diffusione commerciale e di fama la scultura realista e di genere.
Giuseppe Grandi dedicò la sua vita a valorizzare da un lato la sua attitudine a una scultura civile che sapesse trasformare la concezione monumentale dell’epoca e, dall’altra, il legame che la sua attività pubblica ha intrecciato, fin dai suoi esordi, con i fatti e le vicende storico-politiche della Milano dell’epoca.
Nel 1995 fu organizzata nell’ambito del 38° Festival di Spoleto una mostra dedicata al pittore Gioacchino Toma, che ebbe anche un’edizione leccese l’anno successivo. L’occasione offrì la possibilità di rendere note alcune opere che, anche se non tutte assegnabili a lui con certezza, confermavano il fatto che il suo catalogo fosse suscettibile di ulteriori accrescimenti. Entrambe le edizioni offrirono l’opportunità di rivedere l’esperienza artistica di Toma proprio nel momento in cui si poteva prendere atto che la sua fortuna critica non era stata certo carente, anzi era da considerarsi ormai acquisito il suo riconoscimento tra i valori più rappresentativi e più alti dell’Ottocento italiano.
Fra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento il cosiddetto ‘realismo borghese’ è ormai divenuto il linguaggio di gran lunga prevalente in una società che chiede alla memoria scolpita immortalità sia per valori perenni sia per provvisorie, ma altrettanto importanti, commemorazioni. Se nella scultura monumentale pubblica che riempie piazze, municipi, prefetture, edifici pubblici, la forma realista si propone quasi sempre sostenuta da simboli e allegorie, classiche nella scultura funeraria il processo è in parte diverso, per il suo essere più direttamente legata a esigenze immediate di autorappresentazione della committenza.
L’importanza di Medardo Rosso per gli sviluppi della scultura moderna venne precocemente riconosciuta in ambito futurista: ne è testimonianza tra le più importanti il brano tratto dal Manifesto tecnico della scultura futurista di Umberto Boccioni (1912). Sull’arte del grande scultore, numerose sono le testimonianze lasciate anche da Carlo Carrà, che fu legato a Rosso da un sincero e profondo rapporto di amicizia, avviato nel 1914 a Parigi e proseguito al rientro di Medardo in Italia nel 1917, quando Carrà divenne per Rosso un «amico di prima categoria».
Nella Monaco dei filosofi, dei letterati e degli artisti, lo Jugendstil faceva ufficialmente irruzione nel 1896 quale declinazione germanica di quel più ampio movimento di secessione dall’arte tradizionale e delle accademie che si veniva affermando in tutta Europa con i nomi di Modern Style, Liberty, Art Nouveau. Pur non essendo esplicitamente legato ad alcuna formazione politica, il movimento nasceva anche come espressione di un rinnovato liberismo, in un’epoca dove la grande tradizione liberale bavarese mostrava già i segni di una profonda crisi.
D’Annunzio amò l’architettura meno delle arti plastiche e figurative: o, meglio, non seppe trasferire in essa l’intenso afflato erotico che animava l’impasto cromatico dei suoi pittori preferiti, i paesaggi luminosi dei divisionisti, lo stilizzato quattrocentismo dei preraffaelliti, le languide visioni dei simbolisti. Né seppe guardare ad un palazzo come si estasiava davanti ad un quadro o ad una scultura, valutandole nel loro assieme, volumi forme e colori, ed apprezzandone soprattutto il significato intrinseco.
Il Fondo De Maria della Biblioteca del Museo Correr di Venezia e parte del Fondo Grubicy degli Archivi del ’900 di Rovereto costituiscono un importante documento per ricostruire i meccanismi del mondo dell’arte di quegli anni, oltre che il dialettico rapporto tra mercante e pittore. Entrambi gli autori infatti furono al centro dei maggiori eventi pubblici di fine Ottocento e implicati nelle determinanti svolte stilistiche di quegli anni.
Tutta la carriera di Antonio Mancini è caratterizzata da una rabelaisiana – quasi un’eccessiva – esuberanza. Infatti Mancini dipingeva come noi respiriamo: rispondendo a un impulso così irreprimibile e continuo che quasi quasi non ce ne accorgiamo. A questo aspetto della sua arte si congiunge un virtuosismo senza rivali fra i suoi contemporanei. Queste doti sono talmente folgoranti che risulta facile capire che Mancini venga bollato come ammirevole ma poco impegnativo mago tecnico dalla critica italiana e internazionale.
Su Edgardo Simone, personalità poco esplorata, la fortuna critica è confinata, sino ad oggi, pressoché entro l’ambito territoriale di Brindisi, città in cui nacque nel 1890, fatta eccezione per qualche nota dizionaristica di respiro nazionale e internazionale. La presenza dell’autografo Nudo femminile nella prestigiosa collezione di sculture messa insieme da Federico Zeri consente innanzitutto di presentare in questa sede i risultati di un’indagine archivistica e filologica, per lo più inedita, quale primo approfondimento che precisa il profilo formativo e l’attività artistica condotta nel periodo italiano da Edgardo Simone; quindi di collocarlo in scala nell’ambito del generale rinnovamento culturale e del sistema dell’arte italiano ed europeo tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento.
Il presente contributo passa in rassegna il primo Arturo Martini come sublime pasticcere: il primo tempo rientra, grosso modo, in una fase espressionista, fase malcerta, dalle coordinate sfuggenti, soprattutto nel nostro Paese.
La concezione estetica di Arturo Martini fa perno, durante tutto il periodo tra le due guerre, su un concetto di fondo intenso e costante: l’idea di ‘tradizione’. Tuttavia, volendo definire la sua posizione, come usualmente avviene, semplicemente come ‘classicista’ (almeno per quanto riguarda i suoi anni forse più felici creativamente, tra il 1920 e il 1939 circa), si cadrebbe in una riduzione inaccettabile. Nell’opera scultorea di Martini il concetto di classico si estende infatti in modo alquanto eterodosso ad abbracciare, oltre all’arte greca e romana, anche quella etrusca, il gotico o il barocco, l’arte egizia e rinascimentale, nel segno di una continuità vitale ‘mediterranea’ che cancella ogni rigida barriera stilistica e ancor più ideologica, nel senso di un ‘ritorno all’ordine’ canonico.
Eccitante avventura è scoprire grandi maestri dell’arte caduti nell’oblio. Un’avventura che si ha la fortuna di vivere ben di rado: materiali preziosi sono andati perduti, spesso gettati nelle discariche da eredi incuranti, o distrutti i eventi di tragica follia. Le opere di Eberhard Schrammen e di sua moglie Toni von Haken sono sopravvissute, protette con amore in famiglia per oltre sessant’anni. E l’amore è il Leitmotiv che domina tutta la loro storia, privata e artistica.
La vicenda pittorica di Virginio Ghiringhelli (più conosciuto come Gino), nato a Milano nel 1898 e figura importante dell'ambiente artistico milanese, risulta assai poco conosciuta, essendo il suo nome ricordato forse più come gallerista del Milione che appunto come pittore. Ragione di questo è probabilmente anche il fatto che la sua produzione occupa il breve periodo di un decennio (1926-1936), al termine del quale Gino sostanzialmente la abbandona per dedicarsi, e ben più a lungo (fino alla morte, nel 1964) proprio al mestiere di gallerista.
Bruno Munari entra in contatto con il Futurismo in un momento decisivo. Alla fine degli anni Venti infatti l’esperienza macchinista sembra volgere al termine, soppiantata dall’ultima moda: l’Aeropittura. Al suo ingresso nel movimento – nel 1927 – egli è in piena formazione, non sembra ancora risentire di influenze esterne, ma è chiaramente condizionato dalla situazione in atto nel gruppo.
Franco Grignani inizia ad avvicinarsi al movimento futurista nel 1927. Introdotto in questo ambiente dal poeta Giovanni Agnelli, Grignani, allora studente di matematica, iniziò la sua primissima formazione sulla base di quanto il contesto culturale di Pavia recepiva della pubblicistica futurista e sulle pagine della «Fiera Letteraria». Fondamentale fu in questo periodo la scoperta di Depero ed emblematico risulta, a questo proposito, nel 1927 l’olio su tela incompiuto di Grignani Donna al sole del 1927.
Il saggio analizza attentamente il percorso della pittrice comasca Carla Badiali: si possono riconoscere con relativa facilità rimandi e assimilazioni formali di varie tendenze astratte, dal Neoplasticismo a Kandinsky, da Léger a Vordemberge- Gildewart. Ancora è possibile individuare suggestioni provenienti dalla Metafisica e dal Secondo Futurismo, in particolare da Prampolini e Fillia.
Alla fine degli anni ’30 e all’inizio degli anni ’40 ci si trova davanti a una forte polemica da parte di un gruppo di pittori e di critici attorno alla galleria «Il Milione» che leggono Morandi come artista della conservazione, della riflessione idealistica sulle immagini, e dunque un artista che ragionevolmente non si può prendere a modello.
Nel 1922 Atanasio Soldati a Parma vince il Concorso Nazionale Rizzardi Pollini per la costruzione di un campo sportivo e, per l’occasione, espone alcuni piccoli dipinti. Sono questi e non tanto il progetto di architettura a suscitare l’attenzione di Ugo Betti. È l’inizio della storia singolare di un pittore come Soldati, che sempre incontrerà il mondo letterario, a partire dalle prime opere di Parma fino agli esiti astratti degli anni Trenta e nelle vicende successive, negli anni della guerra e in seguito durante l’esperienza del MAC. Il pittore apre la sua ricerca al confronto coi motivi propri della poesia.
RICERCHE E PROTAGONISTI DELL'ARTE NEL SECONDO DOPOGUERRA
Il presente contributo analizza il percorso artistico del gruppo palermitano dei «Quattro» (2 pittori, 2 scultori siciliani: assieme alla pittrice Lia Pasqualino Noto, e agli scultori Giovanni Barbera e Nino Franchina; aggregazione costituitasi nella seconda metà del 1932 a Palermo).
Nel 1953 a Milano si registra un fatto straordinario: Guernica di Picasso viene esposto nella grande mostra di Palazzo Reale dedicata all’artista spagnolo. Eppure, inizialmente, non era affatto prevista l’esposizione del capolavoro. Le ragioni dell’avvenimento non possono essere pienamente comprese senza approfondire la complessità delle dinamiche che lo permisero. Dinamiche che affondano le loro radici in fatti di diversi anni prima.
Notoriamente Burri si rifiutava in modo perfino provocatorio di avallare le interpretazioni ‘letterarie’ del suo lavoro, soprattutto nelle sfumature di tipo psicologistico se non propriamente psicoanalitico, e con altrettanta nettezza negava per la propria opera qualsiasi assimilazione anche semplicemente traslata o allusiva in contesti sociologici definiti, ancor più se organici a tesi politicoculturali ‘vincenti’ o a correnti di pensiero in qualche forma assimilabili alle mode del momento. Questo atteggiamento distaccato, certamente diffidente se non proprio ostile, derivava certo dal suo temperamento adamantino fino ad apparire donchisciottesco, spesso urticante, splendidamente inalterato nel trascorrere dei decenni, pur se temperato via via da un sottile distacco ironico.
La parabola creativa di Mario Ballocco, pur unificata dalla ferrea coerenza dell’approccio e dell’attitudine umana e professionale, improntati a un rigore assoluto e quasi estremo, appare tuttavia contrassegnata – a uno sguardo complessivamente retrospettivo – dalla profonda e radicale svolta ch’egli maturò con costante gradualità nel corso degli anni Cinquanta, rivoluzionando il suo modo di fare e pensare arte.
Il presente contributo analizza la prima attività pittorica di Gianni Dova e in particolare la sua produzione astratta, riferibile ad un periodo compreso tra il 1947 e il 1951.
Nate a Monza nel 1923 con cadenza biennale dall’intuizione della necessità di sviluppare una particolare attenzione verso le arti applicate, le Biennali (poi Triennali) di Milano, al contrario di una immaginabile logica concettuale, avevano adottato un modello di sviluppo caratterizzato da una visione assai ampia del loro impegno nei confronti del pubblico, della città, degli scambi con gli altri paesi, secondo un processo avvicinabile al programma del Bauhaus.
Una mostra organizzata alla Triennale di Milano nel 2005 dal titolo Le Case nella Triennale, dal Parco al QT8, ha riproposto, grazie alle letture di storici d’architettura quali Graziella Ciagà e Graziella Tonon, il problema, ancora attuale, del rapporto tra sperimentazione architettonica o urbanistica e il contesto della città di Milano, con particolare attenzione al QT8, il celebre quartiere sperimentale della Triennale, nato dalle macerie della Seconda guerra mondiale.
L’interesse per la ceramica è presente già nel periodo aurorale dell’attività di Fausto Melotti, nel corso del quale, tralasciando la più nota esperienza astratta, è possibile individuare alcuni episodi che dalla prima metà degli anni ’20 alla fine degli anni ’30 hanno avuto un ruolo determinante nell’elaborazione di una pratica e di una poetica autonome in ambito ceramico. Il periodo ceramico vero e proprio va all’incirca dal secondo dopoguerra alla prima metà degli anni ’60.
Sulla scia di un dibattito sull’arte sacra suscitato negli anni ’30 che aveva avuto l’impulso vivace e stimolante dell’intellettuale napoletano Edoardo Persico, nasce, mosso dalla lettura del saggio di Maritain Art et Scholastique, un nuovo modo di essere artista non imitatore o semplice artigiano padrone del mestiere, ma creatore di bellezza, di poesia, artefice di armonia.
Negli anni Sessanta del XX secolo un eminente pensatore e teologo, Paul Tillich, sosteneva che l’uomo dei suoi tempi era fortemente turbato dalla mancanza di significato che avvertiva in sé, come in altre epoche poteva essere turbato dal pensiero della morte, o quello della colpa e del castigo, o dal dubbio circa l’effettiva benevolenza divina. Il fenomeno osservato da Tillich ed esploso nella sua epoca possedeva una radice abbastanza profonda, identificabile con quei fermenti ‘esistenziali’ che si erano palesati già con forte evidenza nella seconda metà del XIX secolo, sia in campo artistico sia poetico, filosofico e letterario, a loro volta influenzati dalle riflessioni di Kierkegaard e da quel suo analitico discettare sulle varie possibilità di esistenza riservate all’uomo e su come una sola via fra le altre riuscisse, a suo modo di vedere, ad essere immune da fenomeni di angoscia.
Sebbene sia tutt’altro che isolata, fra le correnti realiste e neofigurative del secolo scorso, la pittura di Franco Francese se ne distacca per il tentativo coraggioso, forse non ancora del tutto compreso, di creare una ‘pittura di evento psichico’, quasi una personale mitologia del profondo attraverso le immagini. Questo sforzo, naturalmente, ha una forte ricaduta all’interno dei suoi scritti. Al loro centro, non privo di una coloritura drammatica, si colloca il problema del rapporto tra forma e contenuto: in particolare, lo sforzo di conciliare una pittura densa di pensiero e di connotazioni esistenziali – di ‘contenuti’ o ‘significati’, insomma – con le forme e le poetiche contemporanee, senza che ciò implichi alcun cedimento illustrativo.
Dare vita alle cose, voce al respiro della natura. I segni graffiti, quasi incisi di Emilio Scanavino esprimono fin dagli esempi degli anni Cinquanta il turbamento e l’ossessione per la realtà appena intravista che l’artista cerca di catturare e fermare nello spazio della tela prima che muti in qualcos’altro. L’incertezza e il dubbio sono alla base della poetica di Scanavino come artista e come uomo. Al dramma interiore della miseria fisica e morale Scanavino pone interrogativi e tenta di rispondere con la forza del pensiero, posando sulla realtà uno sguardo intelligente e talvolta ironico, cercando soluzioni razionali. Con gli artisti informali della sua generazione condivide le posizioni esistenzialiste e filosofiche di Jean Paul Sartre più di quanto non sia stato sottolineato fino ad ora, è partecipe degli aspetti fenomenologici dell’esperienza e della creazione artistica, che per lui rappresentano la coscienza e la prova dell’esistere.
Il Movimento Arte Concreta – come si era autonominato – nasce nell'immediato dopoguerra ed esordisce nel 1948 con una serie di cartelle litografiche alla libreria Salto di Milano.
I complessi e contradditori rapporti tra certe correnti artistiche francesi e i corrispondenti movimenti italiani, durante gli anni Sessanta, sono ben esemplificati dalla storia del GRAV – Groupe de Recherche d’Art Visuel – nelle sue relazioni con artisti, movimenti, gallerie e istituzioni della Penisola.
In Italia, e forse in tutta Europa, nel ’59-’60, sbocciava la prima pittura di Mario Schifano: egli sapeva che a Milano un suo coetaneo, e un gruppo, dichiaravano morta la pittura come era stata concepita sino ad allora. Dentro questi climi Schifano è sbocciato, e ha mosso i primi passi verso quella che fu subito avvertita come una precoce, istintiva, quasi miracolosa ma certa maturità.
Nel primo decennio del XX secolo caratterizzato, a livello internazionale, da un fervore quanto mai generalizzato, pur con la condanna del modernismo ad opera di Pio X (1907), il Salento si caratterizza per un analfabetismo ancora altissimo e per il comportamento frenante dei suoi intellettuali. Ci si interessa solo di se stessi. Si lavora a una sorta di vera e propria celebrazione della storia patria, addentrandosi nella sistematica ricerca di documenti, ci si occupa in gran parte delle tradizioni popolari e si presta molta attenzione al patrimonio archeologico.
All’inizio del 2006 il Card. Dionigi Tettamanzi ha voluto donare al Museo Diocesano di Milano il Crocefisso 46 di William Congdon. L’opera, che era stata esposta nella mostra Analogia dell’icona nel 2005 presso il Museo Diocesano di Milano, era stata in seguito donata all’Arcivescovo della Città dalla Fondazione Congdon.
Come per il suo immenso pubblico, anche per Marilyn Monroe la sua identità coincideva essenzialmente con la sua immagine. Ma mentre il pubblico al cinema sognava di veder trasformata l’immagine nel corpo in carne e ossa, lei al contrario sognava di identificarsi totalmente con la propria immagine. Proprio perché è riuscito ad annullare rigorosamente ogni tentazione di ‘inventare’ qualcosa di nuovo, proprio perché non ha messo nulla di suo in termini di espressività formale, Warhol è riuscito a realizzare non ‘una immagine’ di Marilyn (un’interpretazione della sua immagine), ma ‘l’immagine’ della star, che può essere definita ‘assoluta’. Il risultato è di una semplicità sconcertante, la quintessenza dello stereotipo: tutti (all’apparenza) sarebbero stati in grado di fare questo, ma nessuno l’ha fatto prima di lui.
L’opera di Keith Haring viene generalmente interpretata come l’esito più significativo, originale e per certi versi innovativo, nel periodo a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, di una sorta di contaminazione tra la pop art – o forse sarebbe meglio dire la cultura pop nei suoi aspetti visuali – e quanto si andava chiamando graffitismo.
Mentre il gusto, la maniera di leggere e interpretare, il giudizio sui fondamenti estetici delle opere medesime è in continua evoluzione e trasformazione, il nucleo basilare delle opere riconosciute come di alta qualità rimane invariato.
L’idea di un’arte totalizzante è uno dei terreni di indagine che Luciano Caramel desume dallo studio delle avanguardie storiche, non senza una profonda riflessione teorica sul ruolo critico dell’arte e un’attenta ricerca delle sue metodologie didattiche.
Da "Prova Generale per un Museo d’Arte Moderna", la mostra curata dal professor Luciano Caramel nell’estate del 1996 a Palazzo Reale a Milano a una riflessione sulle più complesse vicende delle collezioni pubbliche milanesi.
Come (e quando) avviene che contributi creativi isolati di singole personalità diventino parte della cultura collettiva? È necessario che tali contributi passino attraverso una doppia catena di trasmissione: dalla cultura collettiva al mondo privato dell’autore; e nuovamente, dall’autore alla cultura collettiva.
Normalmente il problema, il nodo della Rappresentazione, sempre così disarmantemente semplice e tuttavia tortuoso e inafferrabile, viene affrontato in sedi variamente scientifiche.
La nostra storia dell’arte, quella del Novecento soprattutto ma anche quella dell’Ottocento, non ha preso in considerazione la fotografia se non in relazione alla pittura; eppure non solo Degas o Rodin, ma anche Ingres e Delacroix utilizzano la fotografia, ed è ovvio che la utilizzano Corot e Courbet, Manet e tutti gli impressionisti.
Il concetto di ‘povertà’ che l’Arte Povera italiana degli anni Ottanta aveva adottato e che, giustamente, metteva in luce i valori troppo spesso trascurati di tanti mezzi espressivi è, in certo senso, una reviviscenza occidentale del concetto nipponico di wabi, inteso come povertà del materiale, e dell’impianto di un’opera, come non finitezza, effimerità ecc.
Tutte le discipline culturali, dalla sociologia all’estetica, dalla semiotica alla critica letteraria, hanno dovuto confrontarsi, in un modo o nell’altro, con le trasformazioni introdotte dai nuovi media negli ultimi vent’anni.
Le città e i territori dell’Asia Minore – l’odierna Turchia – costituiscono uno straordinario laboratorio e una fonte inesauribile di conoscenze: le indagini archeologiche, iniziate alla fine dell’800 e tuttora in corso, hanno fatto conoscere alla cultura europea complessi monumentali di ampie proporzioni e la cui alta qualità formale affonda le radici in una secolare tradizione, costruttiva e figurativa.
L’avvicinarsi del millesimo anniversario del rinnovamento architettonico e decorativo della basilica di S. Vincenzo a Galliano, promosso nel 1007 da Ariberto d’Intimiano, induce a riprendere in considerazione alcuni aspetti del complesso monumentale, puntualmente indagati e approfonditi trent’anni or sono da Luciano Caramel nella Storia di Monza e della Brianza.
Una parte abbastanza considerevole della pittura murale italiana del secondo Duecento e del Trecento è costituita da motivi astratti e aniconici, sui quali poco si è soffermata la critica, mentre si tratta di un repertorio amplissimo e assai vario, molto importante da diversi punti di vista.
A quarant’anni di distanza dalla sua pubblicazione, il saggio di Luciano Caramel Arte e artisti nell’epistolario di Girolamo Borsieri continua ad essere il contributo più autorevole e suggestivo sull’illustre concittadino comasco, non solo per l’assenza di successivi contributi monografici sul personaggio, ma proprio per la modernità e l’accuratezza filologica dello studio, che risulta ancora utile, corretto e ricco di aperture.
La sua origine nobile (si dice comes), il nome di famiglia (bardus) e la sua provenienza pavese: sono dati che hanno costituito i punti fermi di tutti i tentativi di ricostruire i primi anni della biografia di Donato de Bardi, quelli della sua formazione prima del trasferimento a Genova e che possono essere ulteriormente precisati da alcuni documenti, mai finora presi in considerazione dagli storici dell’arte.
Riducendo l’antitesi che sembra contrapporre senza possibilità di conciliazione naturalismo e idealizzazione, l'autore cerca di avvicinare un po’ fra loro Caravaggio e Raffaello, che di solito vengono separati da una divario maggiore di quanto in realtà non sia.
L'autore fa luce su di un inedito affresco del grande scrigno che è la Basilica di sant’Ambrogio. Un lavoro che vuole segnalare la bellezza di una decorazione ad affresco seicentesca citata come definitivamente scomparsa e già attribuita a Tommaso Legnani o al più giovane Legnanino. Nel corso dei lavori di restauro e adeguamento funzionale del campanile dei monaci si sono fatte alcune interessanti scoperte assolutamente inaspettate.
Gli studi sulla produzione artistica e sul collezionismo in Lombardia all’aprirsi del Seicento devono davvero molto alla pubblicazione, da parte di Luciano Caramel, del ricco epistolario di Girolamo Borsieri.
Una ormai nutrita serie di figure di San Rocco popola il catalogo di Giovan Angelo Del Maino, il più grande scultore del legno della Lombardia rinascimentale.
Nel clima culturale, caratterizzato da notevoli cambiamenti, che si instaurò dopo l’Unità d’Italia, le nuove Istituzioni ebbero un notevole ruolo riguardo le questioni legate al restauro dei monumenti e dei manufatti, che fino ad allora non avevano trovato giuste soluzioni per l'applicazione della tutela del patrimonio storico.
La lettura dei modelli di organizzazione della cultura è da sempre una spia, un indicatore significativo dei processi di sviluppo del territorio. In dettaglio, questi brevi spunti di analisi intendono occuparsi della organizzazione dell’arte nel contesto di un possibile modello di sviluppo della città di Brescia e della sua provincia.
In una ancor inattuata quanto necessaria storia della musica italiana del Novecento, il ferrarese Luciano Chailly occuperebbe certamente una posizione di rilievo, sancita proprio dal ricco, anzi vistoso curriculum della sua molteplice attività (oltre che di compositore, di organizzatore musicale e uomo di cultura).
Nei progetti di ricostruzione dei principi scolastici vigenti negli antichi conservatori napoletani all’epoca dell’unificazione del Collegio di musica nel decennio francese (1806) poco spazio sembra essere stato dedicato a un musicista dichiaratamente filoborbonico, Nicola Sala.
Dalla bibliografia di Luciano Caramel emerge la duplicità – caratterizzante la sua generazione, che ha fondato la disciplina di Storia dell’arte contemporanea nell’università italiana – dell’impegno storico scientifico e dell’intervento critico sul presente, anche in frizione diretta con l’attività creativa ed espositiva degli artisti. Tale duplicità si è riflessa sulla didattica, in quella universitaria e in quella rivolta a un pubblico più ampio attraverso i giornali. Da qui, per ogni gruppo tematico o cronologico, la sezione dedicata al ‘giornale dell’arte’. Al fine di rendere meglio consultabile la bibliografia,gli scritti di Luciano Caramel sono suddivisi in sezioni tematiche o cronologiche. In queste ultime, le voci bibliografiche relative agli artisti sono state raccolte nella sezione dedicata al periodo in cui si è svolta prevalentemente la loro attività, salvo, soprattutto nelle varie suddivisioni del ‘giornale dell’arte’, dislocare quelle specificamente rivolte a tempi successivi nelle relative sezioni. Ne risulta la ‘radiografia’ di un corpus di lavori densamente articolato, che rispecchia tanto la pluralità degli interessi dello studioso, quanto le molteplici sfide poste dall’arte nazionale e internazionale dal nodo tra Ottocento e Novecento ad oggi.
1° dicembre presentazione in anteprima del primo volume della collana "Credito Cooperativo. Innovazione, identità, tradizione" a cura di Elena Beccalli.