Scena madre. Il teatro e la donna. È questo il più pertinente (o impertinente) omaggio all’opera, alla vita e al magistero di Annamaria Cascetta. Un volume interdisciplinare sul tema della donna e della sua emancipazione a partire dalla rappresentazione al e del femminile nel teatro e nella cultura dell’Occidente. Il libro si articola in cinque sezioni. Alle costole dell’uomo accoglie le visioni bibliche e cristiane della donna. Donne fatali ripercorre personaggi e interpreti femminili del teatro, dall’antica Grecia al secondo dopoguerra, capaci di ‘stregare’ uomini e pubblico. Lei: sguardi sul femminile apre a riflessioni che intrecciano filosofia, storia, psicoanalisi, letteratura, pedagogia, diritto, economia, sociologia e antropologia della comunicazione per mettere a fuoco le cifre femminili nello scrivere e insegnare o semplicemente nell’ ‘agire’. La rivoluzione rosa si concentra sul teatro a partire dagli anni Sessanta, ovvero al tempo della rivoluzione femminista vera e propria. Mediattrici, infine, è dedicata alla figura e al ruolo della donna nel mondo dei media e della comunicazione.
Annamaria Cascetta, già ordinario di Storia del Teatro e dello Spettacolo e direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo dell’Università Cattolica di Milano, affianca agli studi storico-teatrali la costante attenzione ai mutamenti della scena contemporanea e alle sue intersezioni con le arti.
La scena è arcinota eppure non cessa di interrogarci e soprattutto di inquietarci. Eva è sola e parla con il serpente, e così facendo non solo gli parla ma anche finisce per stabilire un (nuovo) legame con lui. Di che cosa si tratta? Si deve rispondere: essenzialmente di una grande scena di parola, di un sontuoso e tesissimo scambio di battute che tuttavia, per essere ben compreso, esige di essere adeguatamente compreso. Proviamo dunque, ancora una volta, a ricostruire il dramma essenziale che questi pochissimi versetti riescono a mettere in scena.
Come prima cosa è importante segnalare l’intento e i limiti di questo contributo; non si vuole avere un approccio analitico e di accurata (e aggiornata) esegesi sulla figura donna nella Bibbia, quanto piuttosto rintracciare, in particolare nell’Antico Testamento, alcuni elementi ‘sapienziali’ per confrontarli con la cultura di oggi. Lo scopo è quello di trovare ‘nell’antico’ qualche nutrimento per il ‘nuovo’ che sia in grado di portare luminosità in un panorama annebbiato come l’attuale.
Quando cerchiamo di immaginare la crocifissione di Cristo, nella nostra mente componiamo una scena con degli attori principali e immancabili. Innanzitutto Gesù, centrale, appeso alla croce, agonizzante o morto. Il suo corpo è pieno di ferite, dalle sue mani e dai suoi piedi inchiodati gronda sangue. Sulla testa la corona di spine. Sopra a lui il cielo che si rabbuia. Ai piedi della croce i soldati e gli aguzzini che urlano, lo insultano, si spartiscono le vesti. Hanno volti incattiviti, dai tratti deturpati: il loro non è più un viso, è un ghigno. Non sono soli. In mezzo a loro, c’è un gruppo di persone strette le une alle altre. Sono gli amici dell’uomo crocefisso; sono quelli che lo amano. E tra loro c’è sua madre. Tutti soffrono. Ma la madre soffre in un modo diverso. Si vede dal corpo e dagli occhi. È un dolore immenso e indicibile il suo, che non fa rumore e che la schianta al suolo, la immobilizza, le toglie il respiro. È un fiume quel dolore, un fiume che esce dagli occhi, goccia a goccia. Ecco: componendo la scena della crocifissione, tratteggiamo relazioni e sensazioni. Al centro della visione mettiamo un uomo nudo, massacrato e sofferente; attorno, le azioni di chi gli ha fatto violenza. Automaticamente, dunque, rappresentiamo atteggiamenti e punti di vista verso un fatto – una spettacolare esecuzione capitale – e li coloriamo affettivamente.
Fra le molte figure femminili, tratte sia dalle Sacre Scritture sia dalle leggende agiografiche, delle quali la sacra rappresentazione è ricca, il personaggio di Maria Maddalena spicca per la sua singolare umanità, in quanto non è mostrata unicamente nella dimensione di santa irreprensibile tutta e solo votata all’amore per Cristo, ma incarna la duplice natura muliebre, vista prima nella sua diabolica veste di seduttrice lussuriosa, poi in quella riscattata della donna casta e pudica, dedita solo alla preghiera e all’assistenza del prossimo, proponendosi come un concreto esempio educativo proprio perché evidenzia la possibilità della redenzione dal peccato.
Nella Milano devota e praticante dell’età spagnola i solenni ingressi dei nuovi arcivescovi contendevano alle “pompe” trionfali dei sovrani regnanti il primato della massima spettacolarità. Nella cornice degli “applausi” tributati da folle attirate in gran numero, le “allegrezze” della festa e la “vaghezza” dei sontuosi apparati effimeri disegnavano lo scenario in cui la fantasia dei registi del pubblico cerimoniale si dispiegava a briglie sciolte. Gli archi innalzati lungo i percorsi, le facciate addobbate delle chiese e dei palazzi, gli interni monumentali che si rivestivano di uno sfarzo ingigantito dalla profusione di emblemi, di dipinti, di raffigurazioni plastiche, di scenografie dai colori sgargianti, erano gli elementi molteplici che entravano a comporre, nella sospensione dei ritmi della vita ordinaria, le quinte di un vasto teatro dilatato fino a inglobare il tessuto viario urbano. Il gusto dell’accumulo e dell’ostentazione strepitosa, la ricerca degli effetti destinati a stupire, il gioco delle luci e dei movimenti, la sonorità clamorosa delle musiche a ripetizione trascinavano alla facile esplosione dell’entusiasmo collettivo. In queste circostanze speciali, le sottili arditezze retoriche dei “concetti” su cui i dotti modellavano l’architettura dei loro programmi di esaltazione encomiastica arrivavano a mescolarsi, e potevano anche entrare in dialettica, con il linguaggio, più immediatamente istintivo, di una partecipazione corale aperta all’insieme dei ceti e dei “corpi” dell’intera popolazione urbana, abbracciata dalla gerarchia delle sue istituzioni e dai suoi più alti centri di potere.
Nelle concitate vicende che, tra il 1809 e il 1815, caratterizzarono l’aspro conflitto tra Napoleone e Pio VII, ponendo inaspettatamente sulla ribalta europea la città di Savona, luogo prima dell’esilio forzato e poi della liberazione del Pontefice, la figura di Maria, declinata nella devozione locale per la Madonna della Misericordia, acquisisce un ruolo simbolico cruciale, capace di saldare la microstoria di una città periferica e da tempo in declino con i rivolgimenti epocali di un intero sistema geopolitico. Su quel culto, legato all’apparizione miracolosa del 18 marzo 1536, Savona aveva infatti fondato, otto anni dopo la disastrosa sconfitta con Genova, il nucleo della sua resilienza politico-culturale, oltre che spirituale, consolidando nei secoli, almeno sul piano ideale, un primato e un’autonomia cittadina di fatto perdute.
Queste pagine dedicate a Charles Péguy vogliono essere un piccolo omaggio, affettuoso e riconoscente, ad Annamaria Cascetta, che di Péguy è un’affezionata lettrice e una fine interprete: lei stessa lo definisce “una voce potente e lucida, franca e appassionata, indipendente e scomoda nelle sue diagnosi, nei suoi allarmi, nelle sue profezie e nelle sue verità”. Queste pagine sono però anche – inevitabilmente – un piccolo omaggio a Péguy, a cent’anni esatti dalla sua prematura scomparsa, avvenuta in battaglia il 5 settembre 1914, agli inizi di quel tragico errore della storia che oggi ricordiamo come l’inutile strage. Ci soffermeremo in particolare su due personaggi del Péguy poeta e drammaturgo: due personaggi dei suoi Misteri. Il primo – Giovanna – è un personaggio storico, che Péguy rielabora innalzandolo a personificazione stessa della virtù della carità. Il secondo – Speranza – è invece una virtù, che Péguy rielabora attraverso una raffinata personificazione nella “petite Espérance”. In questo senso Giovanna e Speranza sono due personaggi opposti e convergenti: l’una, Giovanna, è carnale, l’altra, Speranza, è spirituale. Ma trovano ciascuna la propria verità nell’ambito che è proprio dell’altra: Giovanna nell’ambito spirituale della carità, Speranza nell’ambito carnale di una bimba piena di vitalità e di energie.
Il presente contributo iconografico nasce dal desiderio di rendere omaggio ad Annamaria Cascetta, una studiosa da sempre sensibile alla bellezza ed efficacia delle immagini. Si è così pensato, su suggerimento di Claudio Bernardi, di proporre un percorso incentrato sulle figure muliebri legate ai temi del tragico e della tragedia, da decenni oggetto di un appassionato lavoro di ricerca da parte di Cascetta. L’idea di declinare il tragico al femminile, presentando una galleria di icone che hanno attraversato i secoli, è un obiettivo ambizioso che eccede i limiti del presente lavoro: quel che proponiamo è piuttosto l’esplorazione di un territorio. Non si tratta di presentare un saggio originale in grado di integrare il vasto panorama delle ricerche sull’argomento, ma si vuole proporre un gioco, un divertissement tragico, come potremmo definire il nostro contributo parafrasando Marguerite Yourcenar. Abbiamo infatti selezionato dodici figure di eroine della tragedia greca che sono diventate vere e proprie icone, archetipi femminili radicati nella cultura occidentale. Come ci insegna Annamaria Cascetta, “la coscienza del tragico percorre da millenni la cultura occidentale. Essa si lega all’intuizione del limite ineludibile, inseparabile dalla condizione dell’uomo, all’ambiguità e contraddittorietà dell’umano, al sapere della sofferenza”.
Quando nel 1455 l’umanista Antonio Cornazano, cortigiano di professione, dedica a Ippolita Maria Sforza la prima edizione del suo Libro dell’arte del danzare in occasione del fidanzamento della giovane nobildonna con Alfonso d’Aragona, duca di Calabria, la celebre secondogenita del duca di Milano aveva dieci anni.
La stagione teatrale del 1673 a Firenze fu turbolenta e memorabile. Gli eventi violenti e rissosi che accompagnarono il passaggio autunnale della “compagnia della Lucinda” furono causa di impegnative mediazioni per Francesco del Nero e Leonardo Martellini, i quali ne riferivano costantemente al cardinale Leopoldo dei Medici. L’intensa corrispondenza restituisce il frammentario ma vivace ricordo della vita quotidiana di quella compagnia, dove rivalità e gelosie, comportamenti ‘sconvenienti’ e scarsa solidarietà di gruppo fanno da cornice alla ‘perturbante’ comica Lucinda e ai suoi favoritismi interni alla compagnia, nonché alle sue relazioni private con l’Abate Adimari. Non sempre lusinghieri furono i commenti al repertorio proposto nello ‘stanzone’ di Firenze, che potrebbe riferirsi all’ancora attivo Teatro della Dogana4. Eppure l’affidamento della stagione autunnale a questo gruppo e alla ‘primadonna’ Lucinda era stato a lungo trattato, alle soglie dell’estate, dall’intermediario marchese Orazio Ballati Nerli, con Romualdo Vialardi, segretario di Stato di Ferdinando Carlo, duca di Mantova.
La Didone abbandonata è il primo dramma per musica di Metastasio e, pur essendo stato scritto in una fase non ancora piena della sua maturità artistica, ne presenta in nuce tutti i tratti distintivi uniti ad alcune intuizioni drammaturgiche particolarmente felici, che subiranno poi una progressiva normalizzazione nel corso della sua carriera al servizio della corte viennese, poco incline agli sfarzi barocchi e alla mimesi delle violente passioni sulla scena.
L’amicizia personale e la cooperazione artistica fra Delphine de Girardin – scrittrice, giornalista e animatrice di uno dei più celebri salons parigini fra gli anni Trenta e Cinquanta del XIX secolo – e Rachel, straordinario fenomeno teatrale che attraversò la scena parigina nei medesimi anni, meritano di essere considerate per quanto ebbero di notevole soprattutto sotto l’aspetto della collaborazione teatrale. Nel decennio fra il 1843 e il 1853 tre pièce eterogenee per genere, struttura e contenuti vengono pubblicate e messe in scena alla Comédie-Française, frutto del duplice talento – letterario e scenico – di due donne tra le più rappresentative della società parigina della metà dell’Ottocento.
Obiettivo di questo saggio è studiare il tema della sessualità femminile come archetipo della drammaturgia realista francese del secondo Ottocento. Ci serviremo a questo scopo della comparazione fra due testi apparentemente distanti fra loro: la Dame aux Camélias di Dumas fils (1852) e La Dupe di Georges Ancey (1891). Pièce canonica e mitogena come poche altre, la Dame aux Camélias cela numerose ambiguità nella sua struttura profonda. Dramma di denuncia sociale nelle intenzioni dell’autore, melodramma nel sentimento del pubblico, il testo di Dumas fils lascia trapelare il tema inquietante della sessualità femminile, che corre sotto traccia in moltissime produzioni dell’epoca, non escluse quelle naturaliste: Descaves, Hennique, Julien e molti altri si situano in posizione apparentemente antitetica rispetto al dramma borghese, ma su questo punto paiono altrettanto ambigui.
L’elaborazione della tragedia Lulu, tra ripensamenti, rifacimenti e correzioni, censura e un processo per immoralità, ha occupato una ventina d’anni (1893-1913) della vita di Frank Wedekind. Lulu si compone di due parti: Erdgeist (Spirito della Terra) e Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora). Originariamente il titolo della prima parte suonava Der Erdgeist (1895). Nel 1903 Wedekind toglie l’articolo determinativo e in exergo al dittico pone i versi 797-809 del Wallensteins Tod (Morte di Wallenstein), terza parte della trilogia che Schiller dedicò alla figura del generalissimo nella Guerra dei Trent’anni, sospettato di tradimento all’imperatore Ferdinando II a favore degli Svedesi. Wedekind tenta così di evitare l’equivoco tra lo Spirito della Terra e gli spiriti elementari di natura e accentua il carattere enigmatico di Lulu. In un primo momento il titolo della prima parte del dittico non fu Der Erdgeist, bensì Irrlicht (Fuoco fatuo). Il primo dramma, in ogni versione del suo titolo, rimanda alla mitologia germanica, il secondo a quella greca dei primordi letterari.
In Italia le prime significative rappresentazioni delle opere di Shakespeare sono successive alle traduzioni di Michele Leoni (1819-22, in 14 volumi) e di Carlo Rusconi (1838, in 2 volumi). Nel 1841 una compagnia di tutto rispetto – capeggiata da Achille Majeroni – allestì Otello al teatro dei Fiorentini di Napoli. L’anno dopo la tragedia fu ripresa, senza successo, dal maggiore attore italiano del tempo, Gustavo Modena, al teatro Re di Milano. A partire dal 1843 (e fino al 1855) Giulio Carcano cominciò a pubblicare le traduzioni – destinate a una notevole circolazione – di molte opere shakespeariane. Ma fu il felice esito del Macbeth di Verdi al teatro della Pergola di Firenze, il 14 marzo 1847, a determinare il vero e proprio inizio della fortuna del grande drammaturgo inglese. Il successo si riverberò ben presto anche sulle scene del teatro di prosa. Proprio quell’anno Adelaide Ristori e Tommaso Salvini recitarono insieme (la collaborazione resterà praticamente un unicum nella carriera dei due divi) in Giulietta e Romeo. Due anni dopo, a febbraio, fu Alamanno Morelli a rappresentare il Macbeth, prima al teatro Carignano di Torino e poi in altre città italiane, tra cui Milano, in concomitanza con la ripresa dell’opera di Verdi alla Scala.
‘Contraddizione’ è termine ad ampio spettro semantico; ma, quando ci si riferisce a un teatrante, soprattutto se di grande successo come la Ristori, per lo più si intende indagare sulla non coerenza, o addirittura sull’opposizione, tra l’ideologia professata nella vita e l’opera e, più precisamente, tra la poetica esplicita e quella implicita nella recitazione. Anche la Ristori, come Rossi e Salvini, scrive le sue memorie che risultano, ed è ciò che quasi sempre succede agli autobiografi, un’apologia di se stessa.
Nel panorama attorale dell’Ottocento italiano Fanny Sadowsky occupa una posizione singolare, sia sotto il profilo personale, sia sotto quello artistico. Da un punto di vista biografico l’attrice non è figlia d’arte: suo padre, Francesco Sadowsky, è un ufficiale polacco al servizio dell’esercito asburgico. Anche il suo approdo al teatro non avviene secondo il percorso abituale: avvicinatasi alla recitazione durante le esperienze filodrammatiche del teatrino di Santa Lucia a Padova, passa al professionismo nelle file della “Compagnia dei Putei” diretta da Gustavo Modena a partire dall’anno comico 1844-45, per poi raggiungere la notorietà con il ruolo di prima attrice nella Compagnia Lombarda, sotto la direzione di Francesco Augusto Bon prima e Alamanno Morelli poi.
Figura emblematica quella di Sarah Bernhardt, figura emblematica e ancora oggi sorprendente, almeno a giudicare dall’attenzione che le viene rivolta attraverso la serie delle pubblicazioni a lei dedicate. Un mito inesauribile il suo, che si alimenta di pagina in pagina e di volume in volume, ora attraverso la riproposta dei suoi scritti più noti, ora mediante pubblicazioni scientifiche oppure, più spesso, per mezzo di opere divulgative. Se la confrontiamo con le altre grandi divine della scena europea tra Otto e Novecento, né Eleonora Duse, né Ellen Terry, né, tantomeno, Adele Sandrock, riescono a tenere da questo punto di vista il passo. Basta semplicemente scorrere, limitandosi alle sole monografie, la bibliografia che le riguarda per rendersi conto di quanto Sarah Bernhardt sia ancora capace, a novant’anni dalla sua scomparsa, di generare composite drammaturgie ora nei teatrini mentali degli storici dello spettacolo, ora nelle pagine degli scrittori di divulgazione, oppure, con altre e talvolta inaspettate modalità comunicative, di prender vita nelle pièce e nei film a lei dedicati.
Agrigento, 7 febbraio 1953. Nella sala del Teatro Luigi Pirandello si rappresenta Come tu mi vuoi. Sul palco, la musa del Maestro, la custode del suo verbo: Marta Abba, tornata alle scene italiane dopo quasi vent’anni di buen retiro negli Stati Uniti. L’attrice non pare emozionata: carica di vitalità e entusiasmo, recita con la passione e lo stile che l’hanno resa celebre negli anni Trenta. Agli spettatori la Abba piace. La sua interpretazione colpisce anche coloro che non hanno mai assistito a un suo spettacolo. Gli applausi a scena aperta decretano un trionfo. Sarà questo l’unico successo di una tournée di tre mesi che porterà Come tu mi vuoi in alcuni centri teatrali d’Italia, confermando un ritorno acclamato, ma, tutto sommato, poco gradito.
La principale affermazione di principio a proposito degli attori nella fase aurorale del Piccolo Teatro di Milano riguarda ovviamente lo smantellamento di uno dei cardini del cosiddetto teatro all’antica italiana: i ruoli. I principi di stabilità e di teatro come servizio pubblico avrebbero finalmente reso possibile, nelle intenzioni dei principali fondatori, anche l’effettiva affermazione della regia in Italia; la nascita del primo teatro stabile pubblico avrebbe infatti potuto porre in essere tutte le condizioni necessarie per far sì che la regia, da principio estetico sognato e agognato, manifestatosi pure con alterne ed eccezionali fortune nel sistema teatrale italiano, si concretasse, finalmente, in un vero e proprio modo produttivo.
Negli anni Sessanta Tennessee Williams dovette affrontare una serie di crisi personali e professionali. Una risposta sul piano professionale fu quella di imbarcarsi in un “periodo di assestamento”, cioè di produrre una serie di opere sperimentali che contrastassero le aspettative create dai suoi precedenti successi con cui i drammi successivi sembravano condannati ad essere confrontati. Come lui stesso ebbe a dire al producer Elliot Martin nel 1978: “I critici ce l’hanno con me. Vedi come sono cattivi. Fanno paragoni con il mio lavoro precedente, ma io scrivo in modo diverso adesso”. Così il drammaturgo si sforzava di reinventarsi nel mondo culturale e teatrale di fine anni Cinquantainizio Sessanta, che sembrava averlo sorpassato.
Il tema della donna e della femminilità ricorre distesamente nell’opera di Kierkegaard. Si dispiega sotto diversi profili e con differenti scritture: nei modi dell’apparenza narrativa e in quelli più esplicitamente teoretici, ma anche nei continui ritorni autobiografici entro le pagine del Diario. E, in un senso o nell’altro, con una forte vibrazione drammatica, dove la scrittura teoretica è a un tempo eco della vicenda personale di Kierkegaard, del suo irrisolto rapporto con l’amata Regine Olsen.
Poche le filosofe ricordate dalla storia. Ancor meno quelle che nei loro studi si siano interessate di teatro. Come se ciò dischiudesse un destino troppo forte. Parola e gesto. Ragione e passione. Maschile e femminile. Unità e molteplicità. Ricerca e dono. In che modo si può stare sospesi su quella ‘e’, senza cedere né alla forte e sicura presa del primo termine né all’onda tumultuosa e imprevedibile del secondo? Il lettore che si accosti ai testi di Lou Andreas-Salomé e María Zambrano non troverà il segreto di questo equilibrio ma due esempi, diversissimi quanto imprevedibilmente affini, di vite spese in questa tensione.
Fatum, da fari, dire, pronunciare. Secondo le credenze classiche è la potenza soprannaturale che domina incontrastata su dei, uomini e cose. Una sorte ferrea, misteriosa, crudele. Dies fatalis, il giorno della morte. L’invenzione del mito della donna fatale, figura di spicco nella produzione cinematografica del secolo scorso, trae la sua massima ispirazione dal mito dell’amore fatale. Meglio conosciuto come amore-morte, esso non ha a che vedere con sentimenti di affetto, condivisione, empatia, propri di relazioni durevoli ed effettivamente vissute nello spazio e nel tempo. È ‘l’amore dell’amore’. La donna, ma anche l’uomo, che scatena questa passione è sì reale, ma solo come portatore di un’immagine idealizzata, mitica, quasi divina. Quanto più intenso è lo stato mentale che si impossessa dell’animo dell’‘innamorato’, tanto meno reale deve essere l’oggetto del desiderio. Al limite, non deve esistere.
Tra l’Ermengarda di Manzoni, la ‘capinera’ di Verga e l’Amalia di Svevo corre una trama, sotterranea ma tutt’altro che esile, di analogie tipologiche e di rimandi testuali. Le accomuna, anzitutto, un tragico destino: quello di morire letteralmente d’amore, senza poter appagare il sentimento che provano, tanto puro quanto intenso e totalizzante: la principessa longobarda, che il re dei Franchi aveva accettato di prendere in moglie obbedendo a un calcolo squisitamente politico, viene ripudiata senza tante cerimonie; Maria, monacata a forza, è costretta a troncare sul nascere il tenero idillio con un giovanotto sbocciato durante un temporaneo soggiorno in campagna per sfuggire al colera; la buona e ‘senile’ figurina sveviana, priva affatto di appeal, non riceve alcuna attenzione dallo scultore Balli, amico del fratello, che anzi, per ingiunzione di questi, cessa di frequentare casa Brentani. La loro, dunque, è la tragedia dell’amore non corrisposto. Per loro non vale di certo il principio della reciprocità affettiva invocato dalla Francesca di Dante nel celebre verso “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” (Inf 5,103): il loro sentimento non è affatto ricambiato. Muoiono tutte e tre assai prematuramente (Amalia, la meno giovane di esse, arriva sì e no a trent’anni). Non diversamente da Ermengarda, “sposa illibata”, tanto Maria quanto Amalia sono vergini.
Il tema della femminilizzazione dell’insegnamento elementare – e poi via via medio e superiore – ha ricevuto attenzione, anche di recente, da studiosi italiani e stranieri, che hanno messo tale fenomeno in relazione a rilevanti avvenimenti politici, ad esempio il processo di formazione dello Stato unitario in Italia, e a più profonde trasformazioni delle società europee, nel corso del XIX secolo.
La Maestra (con la M maiuscola), di solito, costituisce un ricordo indelebile per i suoi studenti. La mia, a ottant’anni, dopo quaranta che non mi vedeva, ci ha messo qualche minuto prima di inquadrarmi: poi a colpo sicuro ha pescato dall’album delle fotografie di classe quella della mia prima elementare e ha iniziato a snocciolare particolari sui miei genitori, il loro lavoro, quanto ero discolo. Ricordi che sono sintomo di una vera e propria adozione: una seconda nascita la scuola, in un’epoca (almeno fino alla fine degli anni Sessanta e ai primi anni Settanta del secolo scorso) in cui la società dell’informazione ancora non anticipava i tempi della socializzazione e la maestra rappresentava l’accesso sicuro all’alfabetizzazione, al sapere, alla cultura. In quegli anni l’evoluzione dei mercati non aveva ancora prodotto quel processo di indifferenziata femminilizzazione cui la scuola avrebbe assistito in seguito. L’insegnamento, come professione, godeva ancora di un elevato riconoscimento sociale: rappresentava la porta per l’emancipazione sociale, era professione intellettuale ancora non ridotta (come spesso capita oggi, se va bene) a esercizio tecnico.
Dal suo punto di vista maschile, Emmanuel Lévinas definisce la femminilità come un movimento opposto a quello della coscienza: la coscienza afferra, cerca di possedere; la femminilità si ritrae altrove, non è mai completamente esauribile nel presente e trasparente allo sguardo dell’altro. La sua trascendenza costituisce l’essenza della sua alterità, il suo ‘mistero’, quella parte di essere che non può essere sezionata, radiografata, squadernata, resa trasparente e quindi posseduta. Quel luogo è anche sede di uno sguardo originale e irrinunciabile, troppo a lungo misconosciuto dietro la pretesa di un rigore disciplinare apparentemente asessuato. È fonte di novità, e per questo anche minaccioso rispetto a ogni sistema, intellettuale e sociale, che pretenda di realizzare una sintesi totalizzante. E che alla fine diventa totalitario. Non è un caso che sia proprio la filosofia del Novecento, di matrice ebraica, a insistere sul paradigma dialogico e sulla necessità dell’ascolto-accoglienza dell’alterità e della differenza.
Chi studia oggi un’impresa non la considera solamente come esito naturale dell’incontro di forze profonde e universali, ma come uno strumento razionale progettato dal vertice, gli organi di governo economico. Ne deriva la preoccupazione per un insieme circoscritto di significati, simboli, valori ed idee presuntivamente connesse all’efficienza e ai risultati. Domina la ragione strumentale, l’enfasi su valori quantificabili e l’identificazione di differenti razionalità con un processo di ottimizzazione dei mezzi atti a raggiungere finalità predefinite. L’accento è posto soprattutto su aspetti simbolici rilevanti in un contesto strumentale-pragmatico.
Annamaria Cascetta, cui è dedicato il presente scritto, ha offerto l’inestimabile contributo della sua cultura, intelligenza e sensibilità al ciclo di seminari e studi organizzato dal Centro Studi ‘‘Federico Stella’’ sulla Giustizia penale e la Politica criminale, che, nell’Università Cattolica di Milano, dal 2009 si dedica all’esplorazione del rapporto – così fecondo, specialmente per i giuristi, di stimoli culturali e professionali – tra giustizia e letteratura. La riflessione maturata in tale ambito può del resto qui proporsi quale fonte di ispirazione anche per l’inquadramento del tema cui, sia pure sinteticamente, ci si dedicherà nel presente scritto: la questione del gender gap criminale, ossia del dato indiscutibile che segnala una significativa prevalenza maschile tra gli autori dei crimini e, ancor più, nella popolazione carceraria.
Tutte le primedonne che abbiamo conosciuto in teatro erano uomini. ‘Primadonna’ è un’espressione sessista, ma non ce n’è un’altra per definire quell’aspirazione capricciosa a primeggiare a tutti i costi, e non necessariamente per merito. La primadonna frappone, alla realizzazione di un’opera, ostacoli che nulla hanno a che fare con l’opera stessa: è vanità che sottende fragilità, incapacità di riconoscersi e riconoscere il proprio ruolo reale, sia nella vita che nella finzione teatrale. Abbiamo visto molte sceneggiate schiamazzanti, oggetti scagliati, porte sbattute, minacce di abbandono… Atteggiamenti utili solo a mercanteggiare potere. Potere miserabile, vista la ristrettezza delle comunità teatrali. Ecco: facciamo fatica a ricordare una donna che si sia lasciata andare a manifestazioni di questo genere. Facciamo fatica a ricordare una ‘primadonna’ donna. Le donne piangono, si chiudono in ostinati silenzi, ostentano troppo zelanti obbedienze, ma non compromettono il risultato. Abbiamo visto, invece, parecchi uomini disposti a mandare a rotoli un progetto, uno spettacolo, pur di affermare se stessi: primedonne, appunto. Le donne ne fanno di tutti i colori, ma non mandano a monte un progetto per affermare la propria egemonia.
Per scoprire le qualità vibratorie di un canto rituale di una tradizione antica, bisogna scoprire la differenza fra la melodia e le qualità vibratorie. È molto importante nelle società in cui la trasmissione orale è scomparsa. Pertanto è molto importante per noi. Nel nostro mondo, nella nostra cultura, si conosce per esempio la melodia come una successione di note, come trascrizione di note. Questo è la melodia. Ma la melodia non è lo stesso che le qualità vibratorie, anche se bisogna essere assolutamente precisi nella melodia per scoprire le qualità vibratorie. [...] La melodia deve essere totalmente fissata, affinché si possa sviluppare il lavoro sulle qualità vibratorie. [...] Quando si cominciano a captare le qualità vibratorie, questo trova il suo radicamento negli impulsi e nelle azioni. E allora, all’improvviso, quel canto comincia a cantarci. Quel canto antico mi canta; non so più se scopro quel canto o se sono quel canto. [...] i canti della tradizione (come i canti afro-caraibici) sono radicati nell’organicità. È sempre il cantocorpo, non è mai il canto dissociato dagli impulsi della vita che scorrono attraverso il corpo; nel canto della tradizione non sono più in questione la posizione del corpo o la manipolazione della respirazione, bensì gli impulsi e le piccole azioni. Poiché gli impulsi che scorrono nel corpo sono proprio quelli che portano quel canto.
Non sono passata per una canonica scolarizzazione, non ho fatto accademie, non sono un’attrice laureata, dunque ho dovuto confrontarmi continuamente e dolorosamente con cantonate, sbagli, errori, spesso pagati a prezzi altissimi. Così Marion d’Amburgo rievoca un percorso di formazione artistica vissuto al di fuori degli schemi e delle logiche dell’apprendimento attoriale. Negli appunti inediti da cui traiamo questo interessante incipit della professione, Marion parla anche di un salto brusco, repentino, non mediato e per tanti versi “violento” tra quello che definisce “il gran teatro della stalla”, specchio di un società contadina, quella della sua famiglia di origine, portatrice di una sua quotidiana rappresentazione di civiltà e ritualità culturale, a quello che potremmo, stavolta noi, chiamare “il gran teatro dell’avanguardia”.
Ciò che accomuna le prime due registe donne del teatro italiano è una sorta di provocazione come metodo, oltre che una continua vitalità che è anche autenticità, smania di libertà, ossessione per il nuovo, rifiuto della realtà in senso naturalistico, a vantaggio di una realtà nuova, proiettata verso il gioco o verso il sogno. Mina Mezzadri si accosta al teatro negli anni Cinquanta, nel momento in cui la professione di regista è decisamente maschile, tanto da non trovare alcuno spazio, neanche dopo, in nessun manuale o nell’ambito della ricerca erudita, tutta attenta alla riscoperta dei maestri della scena straniera, ma che, per la scena italiana, non andava oltre Visconti, Strehler, Squarzina, De Bosio, con qualche strascico dedicato a Trionfo, Scaparro, Castri, Missiroli, Cobelli, Cecchi, per coagulare, alla fine, gli studi su Ronconi. Tutti maschi, insomma; eppure qualcuno avrebbe potuto fare una piccola menzione della Mezzadri.
Il lavoro di Marina Abramovic´ è intimamente connesso alla questione della presenza, al qui e ora in cui l’azione artistica si realizza nella forma di una relazione aperta e dall’esito non predeterminabile. All’inizio degli anni Settanta la giovane artista di Belgrado presenta performance che rompono in modo radicale con il concetto tradizionale di opera d’arte e si propongono come eventi che esistono solo nel tempo del loro accadere strettamente legato al materiale effimero e mutevole che è il corpo dell’artista. Si apre la prima fase della sua attività che durerà fino all’incontro con Ulay avvenuto alla fine del 1975. Una fase che lei stessa descriverà come dominata da un approccio “maschile” ed “eroico”, perché fortemente caratterizzata dal confronto continuo con il limite e il pericolo. “Non ci sono prove, né repliche, né finali preannunciati”, affermerà più tardi ricordando i propri esordi. Nella performance Rhythm 5, eseguita presso lo Studenski Kulturni Centar di Belgrado nel 1974, la Abramovic´ rischia addirittura la vita: dopo essersi sdraiata nello spazio interno di una stella a cinque punte cui aveva precedentemente dato fuoco, perde conoscenza per la mancanza di ossigeno e viene salvata dall’intervento di due partecipanti che comprendono subito quanto stava accadendo. Ma questo non provoca un cambio di direzione, semmai una precisazione nel metodo di esecuzione e di definizione del setting delle azioni.
Premesso che sono di quelle che sostengono la necessità delle ‘quote rosa’, dico che se aspettiamo che per le donne le cose cambino grazie al senso di responsabilità della società, possiamo anche darci per vinte subito. Ci vuol altro. Ben vengano quote rosa, anche rosa fucsia, che è più intenso e si vede da lontano. Ben venga l’obbligo ad avere donne nei consigli di amministrazione, che se aspettiamo che siano le società, le aziende, le istituzioni a pensarci da sole, si farà la notte del mondo, almeno in Italia. Anche nei teatri non sarebbe male un bell’incentivo ministeriale a mettere in scena opere di donne, scritturare registe, musiciste, cantanti e attrici. Come incentivano chi mette in scena opere di autore italiano. Diciamo che se l’autore italiano vale un punto, l’autrice ne dovrebbe valer due.
La morte in scena riemerge nel panorama teatrale del Novecento – e come vedremo anche oltre – sull’onda dei generi misti, che mescolano tragico e comico o gesto, danza, parola, canto; laddove la teoria e la prassi classica antica e quelle neoclassiche francesi l’avevano bandita dai modelli tragici. Per Aristotele, infatti, è preferibile che i sentimenti di paura, terrore e pietà che – come si sa – conducono alla catarsi siano suscitati dall’abilità del racconto (rhèsis), per mezzo del linguaggio (lèxis), piuttosto che dal mezzo più propriamente scenico, la vista (òpsis). Anzi, coloro che, “per mezzo della vista, non producono il pauroso (phoberòn), ma soltanto il mostruoso (teratòdes) non hanno nulla in comune con la tragedia”. Tanto più la prassi diventa norma (sulla scorta dei commentatori della Poetica) nell’età del classicismo francese, e specialmente con Racine: da cui le morti in scena sono considerate scandalose, rompendo l’armonia tragica fondata sul decoro e sul rifiuto degli eccessi; egli personalizza e generalizza la riflessione aristotelica secondo la quale l’ostensione in scena di eventi spaventosi o raccapriccianti sarebbe elemento spurio alla tragedia, che non necessita di sangue e morte ma di una ‘maestosa tristezza’.
Non intendo offrire panorami, impossibili in poche pagine, né azzardare bilanci che non avrebbero molto senso nel mondo contemporaneo, mobile, variegato e ‘connesso’, tanto più su questioni di gender. Propongo invece quattro percorsi individuali, fra loro assai diversi, scelti fra i non molti della stessa qualità di mia conoscenza, per indagare sulla figura dell’attrice oggi, in un teatro che sia al passo coi tempi: “un teatro della percezione e dell’emozione in cui tutti i sensi si richiamano e l’emozione è il motore della memoria, della costruzione del segno, della comunicazione”. Personalità che presentino i caratteri dell’eccellenza professionale, tanto importante per incontrare sia la scena sia le donne fuori dalle ideologie, dalla sudditanza al passato e dal vittimismo. Come è per Annamaria Cascetta appunto, cui il saggio e l’intero volume sono dedicati: una studiosa dagli interessi amplissimi e una maestra; un’edificatrice di spazi, imprese culturali, opportunità; un’intellettuale che ama posizionarsi e che, allo stesso tempo, non smette di guardarsi attorno.
La teoria del cinema è da qualche tempo impegnata a recuperare e ridefinire il concetto di “dispositivo”, già protagonista del dibattito degli anni Settanta: in particolare, ci si chiede quanto il dispositivo cinematografico assicuri all’istituzione del cinema individuabilità e sopravvivenza all’interno della galassia intermediale contemporanea. Certo, il concetto di dispositivo si è trasformato sotto la pressione delle nuove problematiche: da apparato tecnologico portatore di valori ideologici, esso sta passando a indicare tutto l’insieme delle condizioni pratiche e cognitive capaci di definire una specifica e riconoscibile forma dell’esperienza individuale e sociale. Da questo punto di vista il dispositivo cinematografico non appare più un’entità unica e metastorica, quanto piuttosto un oggetto composito che si definisce e ridefinisce in uno scambio storicamente e culturalmente definito con altri dispositivi esperienziali.
Ballerina, cabarettista e attrice ebrea tedesca (1892-1978), Valeska Gert ha collaborato con i grandi nomi dell’avanguardia filmica e teatrale della Germania weimariana, rivoluzionando i modelli di performance scenica, di utilizzo del corpo e di costruzione della femminilità nel balletto e nelle diverse arti che ha attraversato. Negli anni dell’emigrazione forzata dal nazismo, ha letteralmente allevato una nuova generazione di artisti decisivi per le arti performative del dopoguerra, ospitando nel suo cabaret newyorchese Tennesse Williams e in particolare un’altra, più giovane esule ebrea tedesca quale Judith Malina. È stata poi chiamata da Fellini e dai registi del Nuovo cinema tedesco per essere omaggiata nei loro classici, mentre a lei si sono ancora richiamati esponenti delle scena musicale punk, della videoarte, dell’avanguardia contemporanea in particolare femminista o postfemminista. Piccola, minuta, a lungo quasi dimenticata nella frammentarietà della memoria culturale – pochi e poco conosciuti i frammenti video e le fotografie che la ritraggono –, grande nella sua forza dirompente, nella voglia e capacità di mobilitare il pubblico, sorprenderlo, respingerlo, con ostinazione Gert è rimasta sempre fedele a se stessa, rifiutando di lasciarsi inquadrare in schemi culturali a lei estranei, fossero anche i proclami degli intellettuali d’avanguardia che frequentava. “Forse – scriveva a proposito di Sergej Eisenstein, per il quale nutrì pare una vera e non corrisposta passione d’amore – [Eisenstein] voleva solo dire: Io non voglio fare arte né in senso estetico, né romantico. Io voglio solo scattare un’istantanea di questo tempo che sia tanto brutale e spassionata quanto lo è il tempo stesso”.
C’era una volta il mito di Medea. Fuggita dalla Colchide con Giasone, tradito il padre e ucciso il fratello, Medea approda a Corinto con il marito e i due figli. “Isolata dalla sua terra […], sacrificato il proprio linguaggio”, tradita da Giasone, essa concepisce e quindi commette un delitto atroce, facendo morire on solo la nuova sposa del marito fedifrago e il padre di lei, ma uccidendo poi anche i propri stessi figli. Nella prima versione del mito, in realtà, i bambini morivano per mano dei Corinziani. È Euripide l’autore (431 a.C.) di quest’audace innovazione, con la quale traduce in termini realistici tale mito. E noi, oggi, troviamo in questa vicenda motivi di estrema attualità.
Oggetto delle prossime pagine è una drammaturgia in minore, i cui personaggi ricordano più i protagonisti del teatro delle marionette che non gli eroi e le eroine della tragedia: si tratta, infatti, di un segmento particolare della cinematografia d’animazione, quella prodotta dai Walt Disney Studios a partire dal 1937 e che attinge, direttamente o indirettamente, con maggiore o minore libertà, al repertorio narrativo della fiaba così come codificato dal genere letterario del Märchen o del Fairy Tale. In particolare, l’attenzione sarà posta su una figura narrativa talmente attestata in tale cinematografia da diventare un autentico franchise nelle strategie di marketing intraprese da Disney: la figura della Principessa. Nonostante le apparenze si tratta di un oggetto complesso, posto all’incrocio fra tradizione folklorica, letteratura per l’infanzia, industria cinematografica e del giocattolo, marketing e merchandising, psicanalisi e psicologia dello sviluppo, critica femminista e gender studies e – soprattutto – processi di consumo e appropriazione che vedono impegnate milioni di bambine (e bambini) in tutto il mondo. Restituire almeno una parte di tale complessità è la ragione principale di queste pagine.
La performance theory, oggi uno degli ambiti più vivaci e frequentati non solo all’interno della riflessione sulla prassi teatrale e artistica ma nel più vasto complesso delle scienze sociali, ha intercettato in modo marginale gli studi sul cinema e l’audiovisivo. Tale freddezza deriva da un deficit originario dei media riproduttivi che ne ha precluso l’accesso (a volte con prese di posizione radicali) all’universo delle discipline performative: quello della compresenza tra performer e spettatori, condizione necessaria per la realizzazione dell’evento e la trasformazione di coloro che vi prendono parte.
Questo breve contributo analizza un caso storico di performance teatrale ospitata in Tv. Il caso analizzato risale al 1987 ed ebbe per protagonista Franca Rame e il suo celebre monologo Lo stupro, ospitato per l’occasione dal varietà Fantastico, ideato e condotto da Adriano Celentano. Articolerò la mia analisi in tre parti: nella prima descriverò brevemente il contesto in cui la performance ebbe luogo; nella seconda analizzerò in dettaglio la ‘porzione di varietà’ entro la quale fu mandata in onda la performance (con particolare attenzione agli elementi di regia televisiva della performance vera e propria); nella terza proverò a trarre qualche conclusione sul significato che la performance ebbe a diversi livelli: come gesto teatrale, come testimonianza civile e politica, come metariflessione sulla natura stessa della televisione in quanto medium.
Il tema del rapporto fra gender e televisione costituisce un consolidato terreno di riflessione all’interno dei media studies da alcuni decenni, e ha generato un cospicuo numero di studi e ricerche sul campo, entro svariati quadri teorici di riferimento. Si tratta di uno snodo problematico che si è andato via via definendo in maniera differente, poiché è fortemente legato all’evoluzione storica tanto delle società e delle culture, quanto del sistema dei media, e della televisione in particolare. Come hanno efficacemente riassunto Gauntlett e Hill, tre modalità di approccio hanno preso forma nel corso degli anni. Vi sono, in primo luogo, studi sulla “rappresentazione di gender” (gender representation), che hanno puntato l’attenzione sulle diverse forme di costruzione dell’immagine del femminile e del maschile sul piccolo schermo. Vi è, in secondo luogo, una tradizione di analisi che si è focalizzata sulle “influenze di gender” (gender influences), tesa a indagare “i modi in cui donne e uomini imparano e adottano posizioni e ruoli di gender potenzialmente differenti attraverso la fruizione televisiva”. Vi è, infine, una ricchissima tradizione, sviluppatasi con gli audience studies negli anni Ottanta e Novanta, che ha lavorato sulle “pratiche e la condotta di gender” (gendered behaviour), ovvero sui “diversi usi, preferenze, interessi nei confronti delle televisione da parte di uomini e donne”.
Anna Karenina, romanzo che Lev Tolstoj pubblicò in volume nel 1878, è giustamente considerato uno dei capolavori della letteratura universale. Il personaggio di Anna è uno fra i characters letterari indagati con maggior profondità e sottigliezza e che maggiormente si imprimono nella memoria dei lettori, insieme forse alla Natasha di Guerra e pace. Queste caratteristiche, unite alla forte componente melodrammatica dell’intera vicenda, fanno sì che il romanzo sia stato oggetto, nei circa cent’anni di esistenza dell’arte cinematografica, di numerosi adattamenti per il cinema e per la televisione.
“Annamaria Cascetta. Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali. 5 novembre 1973”. Dalla cartellina azzurro carta-zucchero spuntano le veline degli esami sostenuti, il libretto, il tesserino di riconoscimento. Verso il fondo c’è anche la domanda di ammissione alla Scuola Superiore inviata dalla dottoressa Cascetta, fresca di una laurea in Lettere ottenuta cum laude in Università Cattolica. Subito dopo il certificato di diploma, datato appunto 5 novembre 1973. Guardo con più attenzione: chi l’avrebbe detto! Annamaria si è diplomata in Critica e tecnica della radio e della televisione: Dal romanzo al teleromanzo. Un itinerario riduttivo, recita il titolo della tesi.
Nel 2014 ricorrono dieci anni da quando è stato usato, ufficialmente, per la prima volta il termine web 2.0. Con questo termine si designa lo sviluppo dello spazio dei blog, dei social network e delle piattaforme wiki, all’interno del quale emergono con forza alcune caratteristiche della comunicazione in rete tra le quali la dimensione performativa e partecipativa degli utenti. A dieci anni di distanza questo spazio ha progressivamente preso forma anche sotto la spinta delle istanze culturali che hanno contemporaneamente caratterizzato l’evoluzione del contesto sociale. La centralità delle reti sociali, ad esempio. Oppure la centralità della dimensione performativa nella vita sociale degli individui che si esprime nel bisogno di mettersi in scena, nella centralità delle performance del sé, e nella ricerca di elementi performativi – eccezionali – nel contesto che li circonda.
Prima immagine. Nell’ultima sequenza di Una stanza tutta per me ovvero se Shakespeare avesse avuto una sorella Laura Curino ha posato sul palcoscenico due alti pacchi di libri, ben legati, fra gli spettatori e la stanza di Virginia Woolf, un grande cubo con pochi elementi scenografici e chiuso da pareti di tela che si aprono e si chiudono, posto alle spalle dell’attrice. Curino si ravvia i capelli, liscia la giacca che indossa sulla gonna lunga e severa, si prepara per presentarsi in pubblico a tenere la conferenza Women and Fiction, che è l’obiettivo del tenue filo narrativo posto all’origine del testo della Woolf, A Room of One’s Own, a cui si ispira lo spettacolo. Mentre tiene in mano i fogli del suo discorso, con cautela sale in piedi sopra i due pacchi e prende una posizione salda, a gambe leggermente divaricate; alza lo sguardo che racconta fatica e soddisfazione per aver raggiunto quell’altezza e sorride agli uditori-spettatori.
Esistono alcuni luoghi comuni e alcuni paradossi a proposito delle donne comico. Lungi dal poter risolvere la questione, si intende qui metterne in luce alcuni punti fermi (dati e fatti, spesso troppo trascurati) e tracciare qualche ipotesi di ricerca. Da una parte sembra persistere il luogo comune che le donne non facciano ridere, con il corollario che se lo fanno è implicito che ciò avvenga a scapito della loro femminilità (il che è quanto meno ovvio se per femminilità si intende il correlato di una seduttività passiva e sottomessa: riservatezza e modestia mal si conciliano con la necessità di guadagnare il centro della scena, coinvolgere il pubblico e tenerne l’attenzione per farlo ridere, esercitando con ciò una qualche forma di potere). D’altra parte sempre più evidente è la marea di donne comiche nei cartelloni dei teatri così come nei palinsesti televisivi.
1° dicembre presentazione in anteprima del primo volume della collana "Credito Cooperativo. Innovazione, identità, tradizione" a cura di Elena Beccalli.