In occasione del settantesimo compleanno di Claudio Scarpati, per quattro decenni professore di Letteratura italiana nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano, in segno di gratitudine per l’alto contributo offerto nell’ambito della ricerca scientifica e per il prezioso magistero, allievi e colleghi gli rendono omaggio con questa raccolta di studi, che si distende sull’intero arco della storia letteraria italiana. Con indagini ormai imprescindibili, di tale storia Scarpati ha illuminato momenti salienti e figure fondamentali, lungo uno spettro di interessi che si riflette nei temi toccati nel volume: da Dante al Rinascimento di Leonardo, Bembo, Castiglione, Della Casa, Tasso, fino al Seicento di Galileo, Torelli, Preti, Marino; da Pindemonte a Manzoni, Leopardi, Carducci, Pascoli; dal Novecento di Montale, Calvino, Luzi, fino alle voci più rappresentative del dibattito critico e storiografico europeo, Spitzer, Warburg, Curtius.
In occasioni come queste è del tutto naturale, e quasi scontata, la tentazione di rifugiarsi nell’autobiografia. Nel caso specifico, ognuno di noi non durerebbe fatica a richiamare alla memoria, anche con dovizia di particolari, quanto l’insegnamento di Claudio Scarpati sia stato decisivo nel proprio percorso umano ed intellettuale. Proveremo invece ad incamminarci per una strada diversa, evitando, per quanto è possibile, il punto di osservazione interno di chi ha intrapreso la via accademica per cercare di mostrare come lungo quattro decenni l’insegnamento di Scarpati sia potuto apparire a molte generazioni di studenti.
Il primo canto della Commedia, introduzione non solo all’Inferno ma a tutto il poema, è uno dei più noti di tutta l’opera e conosciuto anche dal grande pubblico. In particolare alcuni versi rimangono impressi già dai ricordi scolastici: il celebre attacco «Nel mezzo del cammin di nostra vita», le immagini della «selva selvaggia e aspra e forte» e della «piaggia diserta», l’irruzione delle tre terribili fiere. Il racconto in prima persona del protagonista che confessa le proprie emozioni di paura crea subito un quadro intensamente drammatico.
Quando Dante cominciò a scrivere la Commedia, nell’autunno del 1306, che cosa aveva in mente? La determinazione della data provoca di per sé un formidabile smottamento nel complesso dell’opera dantesca, perché non è la Commedia ad interrompere la redazione del Convivio, bensì è il IV libro del Convivio, la cui data di composizione cade dopo il 1306 (morte di Gherardo da Camino, avvenuta nel 1306, dato come morto in Cv IV XIV 12) e prima del maggio 1308 (morte di Alberto d’Austria, 1° maggio 1308, ma dato ancora come vivo in Cv IV III 6), ad interrompere il lavoro già avviato del grande poema.
Se conto bene, per il ventennio fra il 1950 e il 1970 Enzo Esposito annoverava una ventina di «letture» integrali del XIV dell’Inferno. Più estesa, naturalmente, la bibliografia disponibile, prima e dopo i confini cronologici colà assunti per l’indagine, quando si prescinda dagli istituti della lectio, e si tenga conto del notevole incremento degli studi anche in anni recenti. Ciò è sufficiente per esimere chi scrive da qualunque impegno sul versante di una nuova ‘lettura’, e dunque di un approccio esaustivo al canto in questione. Ci si può semmai interrogare in apertura sulle ragioni di un simile, massiccio ritorno sull’argomento.
Quando mi è stato detto che avrei dovuto presentare questi ultimi due canti dell’Inferno, mi è venuto subito in mente il binomio «poesia» e «struttura teologica» con cui Croce ha definito la Commedia nel suo volume La poesia di Dante, pubblicato nel 1921, in occasione del sesto centenario della morte del poeta. Alla base di tale definizione sta, naturalmente, quella concezione, direi, ‘angelistica’ della poesia come «intuizione pura, lirica e cosmica», nulla avente a che fare con la storia, con cui, nella fase discendente del suo pensiero, il grande filosofo pensò di salvarne l’autonomia, contro la sua positivistica subordinazione alla storia e agli interessi ideologici e politici vigenti.
In quel ricchissimo registro anagrafico a cui Contini ha paragonato la Commedia,il canto XI del Purgatorio non spicca in modo particolare per abbondanza di nomi propri, per quanto ve ne siano, e siano di alta caratura, come l’argomento richiede. Spicca, però, per l’elevata frequenza del lessema nome, che compare ai vv. 4 («“laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore”»), 60 («“non so se ‘l nome suo già mai fu vosco”»), 102 («“e muta nome perché muta lato”»). Tre occorrenze, dunque, come anche nei canti XIV, XXVI e XXVII della stessa cantica; ma se consideriamo i corradicali noma (55: «“cotesti, ch’ancor vive e non si noma”») e nominanza (115: «“La vostra nominanza è color d’erba”») il canto si staglia unico nel panorama della Commedia.
Il canto XIV, nel passaggio dal cielo del Sole a quello di Marte, può essere subito percepito come il canto della resurrezione, del riscatto dell’umanità dalla morte, del sogno del recupero degli affetti terreni, del passaggio degli stessi più intensi legami familiari dall’effimera accidentalità mondana alla gloria eterna del Paradiso: così certamente è stato percepito da un grande poeta contemporaneo, Giovanni Giudici, che ha usato i vv. 64-66 come epigrafe del suo libro del 1993, Quanto spera di campare Giovanni, collegando «la dimensione finale e “ultima” del Paradiso (e dell’attesa e definitiva resurrezione dei corpi) e l’origine infantile, il corporeo cominciare della vita»; tutto il primo testo del libro, Brevi lucignoli, dialoga con il canto dantesco, nel vertiginoso confronto tra i brevi lucignoli e le sempiterne fiamme, interrogandosi sul senso della «piccola vita individuale», riprendendo con leggera modificazione il v. 30 («non circunscritto, e tutto circunscrive», che dà luogo a «il circoscritto e quel che circoscrive»), seguendo la suggestione dell’aggettivo modesta che al v. 35 indica la voce dell’angelo dell’Annunciazione («una voce modesta, / forse qual fu dell’angelo a Maria»: «Le modeste tue care anime vive»).
L’edizione critica di un’opera va al di là della più semplice costituzione del testo critico. Suo scopo prioritario è quello di definirlo fondandosi su una documentazione la più ampia ed esauriente possibile. Per questa via escono a un tempo descritte e illuminate anche la ricezione e la ‘fortuna’ dell’opera: passaggio obbligato verso una organica comprensione storico-critica. Nel caso degli epistolari umanistici, specie di quelli più cospicui, come l’Epistolario di Francesco Barbaro, per numero di lettere, per pluralità anche sociale dei corrispondenti, per sviluppo temporale, ricostruire i percorsi della loro diffusione, le aggregazioni spontanee dei singoli pezzi o quelle ragionate di manipoli di lettere o la formazione di vere e proprie sillogi concepite come libro unitario volto alla lettura o allo studio retorico, il rapporto tra testi precanonici e canonici, è una operazione laboriosa che non consente scorciatoie a puntuali e progressivi procedimenti ecdotici della recensio e della collatio, eseguiti con pazienza su tutta la tradizione manoscritta.
Pochi testi di Leonardo hanno avuto nella modernità una ‘fortuna’ di lettura e di discussione pari a quella conquistata da questa breve nota. La sua celebrità è legata ad uno degli ‘esercizi di analisi’ che Sigmund Freud dedicò a fi gure e opere significative della letteratura e delle arti: il saggio intitolato appunto Eine Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci (‘un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci’), pubblicato a Lipsia presso Deuticke nel 1910 negli Schriften zur angewandten Seelenkunde1, e preceduto pochi mesi prima, il 1° dicembre 1909, da una conferenza presentata alla Società Psicanalitica di Vienna (che allora si riuniva nello stesso palazzo dove risiedeva Freud, al n. 19 di Berggasse), alla presenza di amici e collaboratori come Jung e Rank, sul tema Das berühmte leonardeske Lächeln (‘il famoso sorriso leonardesco’).
Nel manoscritto degli Asolani troviamo due note che convocano sulla scena Marsilio Ficino, in particolare quell’opera inquietante che è la Theologia platonica, scritta fra il 1469 e il ’74 e pubblicata nel 1482.
Il manoscritto Vaticano Rossiano 680, codice che raccoglie materiale poetico vario, rappresenta una silloge lirica con buona verosimiglianza ascrivibile per intero al nome di Bernardo Accolti, poeta e improvvisatore divenuto celebre presso le corti del Rinascimento con il senhal di Unico Aretino. Circa l’autore, frammentarie e spesso imprecise riescono le informazioni consegnate dai documenti e dalle cronache dell’epoca. Nato il giorno 11 settembre 1458 da famiglia nobile originaria di Arezzo, l’Accolti trascorse la giovinezza a Firenze, di dove si allontanò, nel 1497, in seguito al bando comminatogli dalla città per ragioni rimaste oscure.
Diversamente dalla maggior parte delle grandi opere rinascimentali, i Ricordi di Guicciardini sono stati poco studiati in relazione a quella che oggi chiamiamo l’intertestualità. Diversi i possibili motivi di questa singolare lacuna: il primo, più generale, risiede nella nota reticenza dell’autore sulla propria formazione culturale, che rende arduo il compito degli interpreti. Altri si possono individuare nella natura dell’opera, genere letterario «al tutto nuovo»: distillato di sapienza (umana, filosofica, storica, giuridica), ma catalizzata e verificata sistematicamente dall’esperienza e dal giudizio individuali; pensieri talmente informati dalla personalità, moralità e spregiudicatezza (si intende, in accezione positiva) dell’autore da indurre nel lettore un’impressione fascinosa di novità «antilibresca» – un felice aggettivo di Asor Rosa – e antipedantesca che finisce per obliterare il pur evidente debito con la tradizione.
È proprio a Roma, dopo il ritorno di papa Gregorio XI da Avignone, il 27 gennaio 1377, che si coglie una particolare condensazione di fattori e di dinamiche nel processo di costituzione della moderna forma del trionfo, nelle sue componenti cerimoniali, al tempo stesso etiche estetiche politiche. E non avrebbe potuto essere altrimenti, se proprio qui, a Roma, convergono le curiosità e le passioni di letterati umanisti artisti eruditi antiquari collezionisti cavalieri cardinali papi. Dai tempi di Petrarca, che aveva intanto riferito esplicitamente il suo sobrio trionfo di Amore allo spazio archetipico e proprio del Campidoglio.
Collocata in esatta corrispondenza proporzionale con la canzone 264 dei Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca, la canzone XLVII delle Rime di Giovanni Della Casa ne rappresenta il momento fondamentale di svolta e come tale è stata indicata dai maggiori interpreti dellacasiani, dai più antichi (il Tasso la usava come modello nella sua Cavaletta e il Menagio, che pur partiva dal Tasso, ricordava che «comunemente in Italia» le si assegnava la palma) a tutti i moderni.
Una sessantina di manoscritti raccoglie presso la Palatina di Parma una sezione ampia delle carte di Ludovico Beccadelli, in un fondo noto da sempre e già a fine Settecento ripercorso per produrre i tre tomi dei Monumenti curati dal Morandi. Si tratta di un deposito complesso, formatosi nel segno di una modestia operosa che non era posa esteriore; più acribia che non talento letterario, e soprattutto spirito di servizio, se le opere compiute e meglio note del Beccadelli, bolognese di nascita, padovano e fiorentino per studi e amicizie, sono le biografie di Gasparo Contarini e Reginald Pole, di Bembo e Cosimo Gheri con accanto il lungo studio dedicato al Petrarca
Presso la John Hay Library della Brown University (Providence) sono conservati due esemplari di due edizioni dell’opera di Orazio con il commento di Cristoforo Landino, entrambi corredati di postille manoscritte attribuite, secondo l’indicazione del catalogo, a Pomponio Leto, Bernardo e Torquato Tasso.
Il primo giorno di ottobre del 1618 Virginio Cesarini, da pochi mesi divenuto linceo insieme all’amico e sodale Giovanni Ciampoli, scriveva a Galileo una lunga lettera nella quale, dopo aver sottolineato con il fervore del neofita l’importanza decisiva dell’ormai maturo scienziato nella sua faticosa emancipazione filosofica, annunciava «qualche pensiero di novità non affatto disprezzabile» in materia di poesia di cui si sarebbe fatto portavoce lo stesso Ciampoli con l’occasione di un imminente viaggio a Firenze.
In questo breve saggio non intendo ritornare sulla storia, sempre affascinante, del rapporto di Galileo con gli scienziati gesuiti dei secoli XVII e XVIII (Clavius, Biancani, Bettini, Cavalieri ecc.). Né intendo affrontare il cosiddetto ‘caso Galileo’, controversia mirata a proiettare la fi gura del fondatore della scienza moderna nelle vesti di un Prometeo, il ribelle che sfida l’‘oscurantismo’ della Chiesa. In effetti, sullo sfondo di questo mito obliquamente romantico il ‘caso Galileo’ appare cristallizzare il perdurante conflitto tra la libertà scientifica e l’autorità dogmatica, tra le filosofie razionali dell’epoca e la fede religiosa, e in sostanza tra due visioni della vita radicalmente divergenti. Una tale antitesi si rivela precostituita e troppo schematica per permettere di cogliere la ricchezza di esperienze intellettuali in cui scienziati e teologi erano coinvolti. In realtà la questione propone ben altra complessità: come dimostrato da vari documenti, gli ecclesiastici si trovarono dal principio dalla parte di Galileo, mentre molti scienziati come Francesco Sizzi gli si opposero ferocemente.
Nelle lettere di Galileo si rintraccia di frequente l’uso di simboli sia monetari, sia astronomici. In una cultura abituata alla trasposizione dei concetti in segni, simboli, icone, emblemi come quella barocca, quest’uso non stupisce, ma la sua frequenza nell’epistolografia galileiana contribuisce ad indicare la qualità della ricerca espressiva dello scienziato, volta a una scrittura efficace, rapida, comunicativa, che porta all’interno del discorso le strategie della significazione matematica, algebrica e astronomica.
Pomponio Torelli, «ultimo tragedo del Cinquecento» secondo una fortunata definizione di Attilio Angeloro, nacque nei pressi di Parma nel 1539 da una nobile famiglia locale. Rimasto orfano in tenera età, il giovane Conte di Montechiarugolo fu affidato alle cure di tutori ed ebbe come precettore il fiorentino Andrea Casali, nell’attesa di entrare in possesso delle terre che gli spettavano per diritto di nascita. Se mai venne meno, negli anni successivi alla sua investitura a conte, ai continui obblighi di governo (i contemporanei lo descrissero come un signore giusto ed equanime), subito si sviluppò in lui una spiccata propensione per la letteratura e la poesia, certo favorita da un lungo soggiorno padovano (1550-61) durante il quale poté giovarsi delle lezioni universitarie del Robortello, del Tomitano, del Pellegrino e di altri luminari di quel celebre ateneo.
Se il giorno della sua inaugurazione, l’8 dicembre 1609, la Biblioteca Ambrosiana possedeva già ricchezze librarie tali da suscitare la curiosità e lo stupore della Repubblica delle Lettere, ulteriori e altrettanto preziosi acquisti si sarebbero aggiunti negli anni immediatamente successivi. Alle imponenti e documentate campagne di acquisizione, che servirono ad incamerare i fondi ancora oggi distintivi dell’identità dell’Ambrosiana, dai giacimenti di Bobbio alla biblioteca di Gian Vincenzo Pinelli, per citare solo due casi, occorre unire il vasto movimento degli ingressi minori, non impressionanti per numero di pezzi ma che fornirono singoli elementi di incalcolabile valore, e che, nella loro complessità, giunsero a riempire una porzione non indifferente degli scaffali ambrosiani.
Una scelta di immediatezza comunicativa e di «parlar aperto e chiaro» aveva guidato ai primi del Cinquecento l’«esperimento a carte scoperte» della Leandra di Pietro Durante da Gualdo, incunabolo della sestina narrativa. Un secolo esatto più tardi, quella forma metrica, sfortunata assai più del poema che l’aveva lanciata, veniva ripescata da Giovan Battista Marino e felicemente iniettata nel genere del panegirico, a creare un composto cui il poeta sarebbe rimasto fedele. Usciva così, con data del 1° novembre 1608, Il Ritratto del Serenissimo don Carlo Emanuello duca di Savoia, pegno encomiastico che procurò al Marino una protezione importante e, di lì a poco, un rifugio quasi sicuro a Torino.
È opinione diffusa, per quanto forse non unanime, che Giovan Battista Marino componga il suo Adone nel segno di un gareggiamento con il poema moderno la cui eccellenza era pressoché concordemente riconosciuta a partire dall’ultimo scorcio del Cinquecento, la Gerusalemme liberata. Se si accetta questo assunto, si dovrà anche riconoscere che l’epopea tassiana svolge di conseguenza una funzione fondamentale nella costruzione dei significati del nuovo poema, molti dei quali ad essa si richiameranno, vuoi per analogia, vuoi per spostamento od opposizione, attraverso processi imitativi o trasformativi: ferma restando, ed è perfino scontato ricordarla, la distanza tra un’opera latrice di un messaggio forte, sviluppato entro coordinate di pensiero e di valori che chiedono di essere riconosciute, e un lavoro come l’Adone, da cui non è impresa agevole estrarre un’intenzione unitaria, per l’apparente contraddittorietà dei contenuti e la vertiginosa abbondanza delle piste esegetiche.
«Il proponimento mio è di scrivere l’istoria del concilio tridentino»: questo l’incipit dell’opera sarpiana. Esso rinvia ad un altro memorabile incipit, quello della Storia d’Italia di Francesco Guicciardini: «Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri principi medesimi, cominciarono con grandissimo movimento a perturbarla». «Memorabile» davvero il movimento d’apertura proposto da Guicciardini, per il quale è stato rilevato come esso marchi la consapevolezza dell’attività responsabile dello storico di fronte alla materia narrata.
Queste pagine sono di omaggio a un caro collega e a uno studioso di qualità, ma vorrebbero anche servire (poiché esse sono – almeno agli occhi del loro autore – pagine un po’ dissestate e per dir così mobili, al modo di un terreno franoso), come minuscola e correggibile tessera di un disegno più ampio della letteratura artistica tra la metà del Cinquecento e la fine del Settecento, ovvero tra le vite del Vasari e la Storia pittorica del Lanzi. Considerando il taglio e i limiti del discorso, ho rinunciato a quell’apparato documentario che in genere consideriamo doveroso.
In una delle sue ultime opere sulla consistenza di una tradizione mistica femminile di ancien régime, la sapiente penna di padre Giovanni Pozzi ricordava come essa si collocasse «all’interno di una intiera letteratura sul tema dell’essere-non essere e del tutto-nulla», quale crocevia di una grammatica espressiva della santità e di una metafisica dell’essenza, insieme ontologica ed ‘affettiva’, a diversi gradi intrecciate con le manifestazioni di una soggettività che, per quanto sfuggente nell’oltranza ineffabile delle esperienze individuali assolute e d’eccezione, non rinunciava però a una volontà del dire e del comunicare, sorretta dalla convinzione che anche a realtà così irriducibili fosse concessa una sorta di «solidarietà linguistica», cui il parteciparvi assumeva i tratti di «un atto di religione».
Nel settembre del 1798, Ippolito Pindemonte metteva a parte l’amica Isabella Teotochi Albrizzi di un suo nuovo progetto letterario, maturato in villa, nella quiete campestre di Nòvare, in Valpolicella: «Ho trovato su queste colline, per le quali passeggio, il soggetto d’un’altra tragedia, che vi communicherò su la Riva, se vi degnerete della Riva dopo le cascine e i Fagiani: è tutta amor materno e figliale».
Manzoni, come sappiamo tutti, ha riscritto ben tre volte i suoi Promessi sposi, pubblicandone sole la seconda e la terza versione, la cosiddetta ‘Ventisettana’ e la ‘Quarantana’. Sono altrettanto ben note le parole dell’introduzione al Fermo e Lucia, rifatta alla fine, in cui Manzoni afferma di scrivere male: «Scrivo male: e si perdoni all’autore che egli parli di sé…»
Sia, dunque, il Cinque maggio. L’interpretazione generale dell’ode può far capo attorno alla duplicità di senso di «superba altezza», una metafora etico-spaziale che si scioglie, per cominciare, in ‘altezza del superbo’ (insieme hybris classica e orgoglio babelico), e propone una lettura in linea con i frequenti echi, tra minute e ne varietur, dei canti dedicati alle anime della prima cornice del Purgatorio.
Ogni volta che si accinge a rimettere mano alle convinzioni di ordine teorico, con l’intento di rivedere e rafforzare le fondamenta del proprio edificio compositivo, Manzoni torna a definire con lucidità crescente – senza per questo erigere barriere invalicabili – i confini che delineano i territori della storia e quelli della poesia. Questo avviene – come è noto – nei passaggi cruciali della Lettre à M. Chauvet, affiora nei frammenti dei Materiali estetici, emerge infine, con rinnovato vigore e limpida consapevolezza, nel dialogo Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione, esito di un disegno lungamente maturato, sin dalla primavera del 1823, quando, all’inizio della stesura del quarto tomo del Fermo e Lucia, Manzoni interrompe bruscamente la narrazione, mosso dall’urgenza di una nuova e più dettagliata ricognizione storica
La «voce soave» di Lucia dice così: «Paura di che?» (Promessi sposi, cap. XXXVI, pp. 695-696), rivolta a una giovane vedova «di forse trent’anni» in via di guarigione dalla peste, alla quale la protagonista dei Promessi sposi sta prestando le sue cure. A sua insaputa e per puro caso, Renzo ascolta e riconosce quella voce, di là della parete di paglia della capanna che ospita le due donne. Cercherò innazitutto di commentare la piccola sequenza narrativa nella versione finale del romanzo, con l’intenzione di mettere in rilievo il senso della battuta con cui Lucia si rivela a Renzo, sullo sfondo del racconto che si conclude con il riporto di tutti i fi li tematici rimasti pendenti fin qui.
Nella Crestomazia della prosa, allestita da Leopardi per l’editore Antonio Fortunato Stella e pubblicata a Milano nel 1827, non è prevista alcuna sezione intitolata Dediche, benché non manchi qualche stralcio estratto da lettere dedicatorie, come un frammento dalla dedica del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, compreso nella sezione Filosofi a speculativa con il titolo Differenza grande che è da uomo a uomo.
La lettera che Alessandro Manzoni inviò da Parigi il 12 marzo 1806 al suo amico bresciano Giovan Battista Pagani è percorsa dal traboccante entusiasmo suscitato dall’incontro con il vecchio Lebrun, «un poeta sommo», «un lirico trascendente» (che del resto aveva attribuito a se stesso il soprannome di Lebrun-Pindare).
Un anno prima della morte del prefetto dell’Ambrosiana Pietro Mazzucchelli († 1829), Girolamo Mancini, già ‘custode del catalogo’ dal 13 novembre 1820 e riconfermato nella carica il 18 gennaio del 1825, fu nominato dottore dell’istituzione milanese; riconfermato come dottore nel 1830, si spegneva il 25 settembre 1835. I suoi interessi furono volti soprattutto alla letteratura italiana e, se anche poco pubblicò, alcune sue carte, frammischiate a quelle del Mazzucchelli, lasciano intendere come, da un canto, il Mancini si proponesse di preparare una biografia del prefetto Mazzucchelli (Ambr. S 211 inf., ff. 1r e 2v), dall’altro, ne volesse forse riprendere gli studi danteschi, concentrandosi in particolare sui commenti antichi alla Commedia e sugli antichi lettori pubblici del poema.
Qualche anno fa, per un esercizio di letteratura comparata d’obbligo nel paese in cui insegno, intravidi nelle raccolte poetiche carducciane un buon terreno di indagine per quello che in altre tradizioni critico-letterarie si chiama ‘ciclo poetico’ e che in Italia si è chiamata dimensione macrotestuale delle raccolte poetiche. La definizione del fenomeno e le differenze che le diverse denominazioni dello stesso implicano poco ormai, credo, importino.
Forse non è un caso che la narrativa di De Roberto inizi nel segno della lettera se al 1882 data la collaborazione al «Fanfulla» con una serie di lettere dal titolo Echi dall’Etna firmate con lo pseudonimo Hamlet e se al 1883 risale La malanova, inviata a Capuana direttore del «Fanfulla della domenica», dove fra il 1884 e il 1887 escono novelle poi comprese nella raccolta Documenti umani, pubblicata a Milano nel 1888, l’anno in cui appare a puntate sulla «Nuova Antologia» la prima stesura del Mastro don Gesualdo di Verga, lo stesso anno in cui Fogazzaro pubblicava Il mistero del poeta e D’Annunzio Il Piacere.
Nel saggio introduttivo all’edizione delle Lettere di Pascoli ad Augusto Guido Bianchi, cronista giudiziario del «Corriere della sera» di Luigi Albertini, Claudio Scarpati aveva riflettuto, trent’anni or sono, sul carattere «fatalmente privato» dell’epistolario pascoliano che ne giustificava «forse» la mancata ricomposizione. Mi era parsa degna di nota, e credo continui ad esserlo, l’osservazione di Scarpati che aveva previsto gli ostacoli che si sarebbero opposti alla ricostituzione completa di un epistolario immenso e disperso come quello di Pascoli, «lontanissima e forse inattuabile».
Il 20 marzo 1852 uscì in volume, dopo essere stato pubblicato a puntate fra il 5 giugno 1851 e il 1° aprile 1852 sul settimanale «National Era», il racconto Uncle Tom’s Cabin di Harriet Beecher Stowe, uno dei più significativi libri di narrativa americana del secolo XIX e caso editoriale quasi incredibile. In meno di dodici mesi il testo in inglese fu stampato ripetutamente di qua e di là dall’Atlantico e traduzioni furono eseguite e pubblicate a tamburo battente in numerose lingue dell’Europa occidentale e orientale.
È a tutti noto l’incipit di Pianissimo: «Taci, anima stanca di godere / e di soffrire (all’uno e all’altro vai / rassegnata)», là dove quel «Taci» non è imperativo dannunziano, bensì l’indicativa constatazione di un dato di fatto. L’inizio sembra proprio un punto d’arrivo: la fine della parola e l’approdo al silenzio: sia quello del poeta e della sua anima («Nessuna voce tua odo se ascolto») che quello del mondo («Perduta ha la sua voce / la sirena del mondo»). Se dunque il sottovoce di Pianissimo definitivamente va spegnendosi, rimane tuttavia nel mondo, che pure si è fatto «un grande / deserto», un’altra attività residua, quella dello sguardo: «Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso».
Composta nel 1930, La casa dei doganieri compare il 28 settembre dello stesso anno sull’«Italia Letteraria» e due anni dopo nella plaquette vallecchiana dell’Antico Fattore, prima di essere accolta nelle Occasioni, in posizione ‘forte’ e con due sole varianti, ad apertura della quarta e maggiore sezione:
Tu non ricordi la casa dei doganieri sul rialzo a strapiombo sulla scogliera: desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri e vi sostò irrequieto.
Il libro Due imperi... mancati, edito da Vallecchi nel giugno 1920, è un luminoso esempio di militante neutralismo, di pacifismo pugnace. È indicativo che proprio a questa cupa cronaca degli anni di guerra – dall’agosto 1914 all’agosto 1919 – Aldo Palazzeschi abbia affidato le sue più appassionate credenziali non solo di antinazionalista e di pacifista, ma di libero cittadino del mondo, di creatura aerea innamorata della vita: «Io sono di tutti i paesi e tutti i paesi sono miei [...].
La passione di Montale per la pratica del canto lirico affonda le radici nella prima giovinezza del poeta e lo accompagna per tutta la vita: accantonata l’idea di una carriera professionale come cantante, resiste in lui il piacere di modulare la voce di basso e di esibire saggi vocali agli occasionali uditori: fino a concepire lo scherzo di spacciare agli amici la propria voce registrata per quella di Scialiapino di Titta Ruffo, e, addirittura, molti anni dopo, fino a dichiarare la volontà di registrare il duetto tra Rigoletto e Sparafucile, sostenendo entrambe le parti.
Rispondendo a Fulvio Longobardi, che aveva inviato alla casa editrice Einaudi il dattiloscritto di un suo romanzo (L’agenzia), Italo Calvino utilizza la formula del kafkismo sociologico per definire la narrativa di fabbrica e, in particolare, quella di ispirazione olivettiana. «Non ricordo la Sua data di nascita» – gli si rivolge per lettera il 16 giugno del 1965 – «ma certo l’inizio del Suo libro è nel clima “metafisico” con cui scrivevano i giovani prima del ’43. [...] Ma dal kafkismo lirico degli anni ’40 siamo passati al (molto più pseudo) kafkismo sociologico degli anni ’60, quando cioè ognuno dei numerosi letterati funzionari dell’Olivetti (non mi riferisco tanto a Volponi, che ha un modo suo di vedere le cose, ma a tutti gli altri) ha scritto un romanzo in cui l’Olivetti diventava un’azienda misteriosa e allegorica».
Si deve, ch’io sappia, a Giorgio Bàrberi Squarotti la segnalazione, sommaria ma preziosa, di una fonte che fa luce su (Se musica è la donna amata), uno dei testi più ardui e sibillini di Avvento notturno, il libro ermetico di Mario Luzi. Commentando questa poesia, egli scrive infatti, a un certo punto: «Ad accrescere il senso di straniamento del testo di Luzi interviene l’ambiguità del titolo, che è una citazione del Cortegiano». Con la prodigalità caratteristica del lettore coltissimo e di sovrana memoria, Bàrberi ha lasciato cadere quasi en passant questa notazione, in un percorso dimostrativo diretto altrove.
Nel 1954, quando a Firenze esce il primo numero della «Chimera», rivista «mensile di letteratura ed arte» diretta e stampata da Enrico Vallecchi, le circostanze della storia mostrano un quadro della società e della cultura italiana frantumato e inquieto, attraversato da tensioni e novità disorientanti. In un panorama ancora fortemente segnato dalle ferite inferte dalla guerra, gli anni Cinquanta traghettano il paese verso macroscopici mutamenti sociali destinati a dare un nuovo volto alla nazione, ma al prezzo di nuovi traumi umani e di lacerazioni ideologiche. È infatti in questi anni che l’avanzare a largo raggio della società industriale produce prima la crisi, poi la fatale cancellazione di tutto un patrimonio culturale e morale, fatto di ritmi, modi, relazioni e valori, cresciuto lungo secoli di vita contadina e artigianale.
Può sembrare anomalo, sebbene non inusitato, che ad affrontare un tema cosiffatto sia un non credente, e che si accinga ad affrontarlo o creda di poterlo affrontare da una sponda di cultura laica e razionalistica. Devo confessare in proposito che avverto tutta la difficoltà dell’impresa: per le modalità di approccio al tema – un tema complesso e delicato, che richiederebbe per la sua trattazione competenze filosofi che (di ‘filosofi a della religione’) e teologiche – e per la conseguente ‘parzialità’ e inadeguatezza dei miei strumenti ermeneutici rispetto al tema, alla sua ‘essenza’ più profonda.
Si deve a Gianfranco Contini, l’autore di raffinati ‘esercizi di lettura’ che idealmente si dipanano lungo la tradizione tipicamente italiana del ‘saper leggere’, l’aneddoto che fissa per sempre Leo Spitzer mentre, nel suo studio della Johns Hopkins University, riceve la visita di un ammiratore sprovveduto il quale, vedendolo immerso nei libri, «lo saluta con l’ingenua apostrofe: “Come va, maestro? Sta lavorando come al solito?”. “Lavorando? – risponde Spitzer – no, no, godendo, come al solito, godendo”». Nel manifestare tutta la voluttà delle sue escursioni testuali la battuta non giustifica soltanto l’appellativo di ‘sibarita’ assegnatogli da Contini ma anche la singolarità di uno studioso che in tutti i suoi molteplici contributi critici intese sempre fare «uno sberleffo, quanto salubre e ricreativo!, agli inappetenti sacerdoti della scienza», pronti ad accusare Spitzer di mancare di metodo e di rigore scientifico, surrogato al più da balenanti intuizioni affatto soggettive.
Gustav Gröber (1844-1911) und Aby Warburg (1866-1929) in memoriam: è la dedica che introduce Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius. Gustav Gröber, filologo romanzo, era stato maestro di Curtius all’Università di Strasburgo, e perciò la menzione non stupisce: i nessi tra i due sono espliciti, e vennero evidenziati dalle numerose recensioni al volume, uscite all’indomani della prima (1948) e poi della seconda edizione (1954). L’opera parve debitrice nei confronti del metodo di Gröber, della sua proverbiale cautela e del suo abito positivistico, che, pur obbligando a costruire ogni sintesi storiografica sull’impegno filologico, sulla conoscenza analitica e sull’esegesi dei fatti minuti, non rinunciava a interpellare la sostanza psicologica del fatto espressivo.